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Gli italiani pensano agli Stati Uniti: modello sostenibile o sostenuto?

Quattro stereotipi sugli Stati Uniti: vediamo che fondamento hanno

Alice FusaribyAlice Fusari
Allarme sui cibi super-processati: “aumentano il rischio di cancro”

A three-year-old child eats Hamburger ANSA/EPA/OLIVIER HOSLET

Time: 3 mins read

Gli italiani pensano agli Stati Uniti d’America, con ammirazione per la loro industria cinematografica e le star eccentriche, con meraviglia per la grandiosità dei parchi naturali e dei grattacieli. Preoccupati per il futuro politico, sconfortati dalle armi. Ma quando si parla di sostenibilità, soffermandosi sulla connotazione ambientale del termine, qual è l’immediato, spesso non verificato, parere degli italiani?

Le quattro aree tematiche su cui gli intervistati italiani – di diverse età e ambienti – si sono concentrati una volta invitati a esprimersi, sono state: la nutrizione, la moda, la gestione dei rifiuti e il senso civico. Ciascuna di esse giudicate in modo negativo, seguendo stereotipi.

In un viaggio nella cultura e nelle abitudini degli Stati Uniti d’America, scopriamo la plausibilità di questi giudizi.

LA NUTRIZIONE

Il primo pensiero italiano legato alla sostenibilità negli Stati Uniti d’America è sicuramente quello riguardante la nutrizione. Cibi processati e allevamenti intensivi saltano all’occhio e colpiscono le coscienze anche lontane, per mezzo di documentari e video testimonianze. Uno stereotipo, questo, sicuramente molto diffuso fra gli italiani, difficile quindi pensare sia originato da una valutazione sventata.

Ne abbiamo parlato con Francine Segan – storica del cibo – tra i maggiori esperti americani di cucina italiana. “Il cibo americano è cambiato negli ultimi dieci anni” ci dice, “in parte in bene: gli americani mangiano meno carne rossa, ma ancora troppa. Nel 1970 l’americano medio mangiava 2.160 calorie al giorno, oggi quel numero è aumentato a 2.673 calorie al giorno, soprattutto in alcuni Stati”.

Dati che prendono un’ulteriore connotazione negativa se consideriamo che nonostante il 10% della popolazione americana sia vegetariano (addirittura più che in Italia) la restante percentuale mangia carne tre volte tanto la media globale. Inoltre, “la dieta americana non è sostenibile: la quantità di terra utilizzata per produrre il cibo è elevata, soprattutto per le carni rosse, i latticini e i cereali; le mandorle della California necessitano una quantità enorme di acqua per crescere”.

LA MODA

Caro Boeta – vintage curator nata in Brasile e trasferitasi a Milano all’età di 24 anni – comprende lo stereotipo diffuso che definisce gli americani come “poco attenti al riutilizzo degli abiti”, ma sostiene che tale apparente disattenzione dipenda da un’impossibilità oggettiva, da una scarsità di risorse adatte.

Gli Stati Uniti d’America, infatti, hanno da sempre trattato il mondo della moda in ottica business (escludendo i periodi di guerra, contrassegnati da un’inevitabile ricerca di funzionalità dei capi) per dimostrare la propria superiorità, soprattutto all’Europa. Negli anni ‘60, le aziende tessili americane producevano il 95% della biancheria e dell’abbigliamento negli Stati Uniti. Successo che durò fino agli anni ’90, per poi verificarsi nuovamente nel 2010, quando il Paese visse un periodo di rinascita che lo portò a guadagnare il quarto posto nella classifica internazionale di esportatori tessili.

L’aspirazione alla superiorità e al profitto, la conseguente produzione di massa (in contrasto con la durabilità dei capi in ottica vintage) e la “logomania” (poco compatibile con la logica dell’upcycling) giustificano l’ostilità italiana nei confronti della moda statunitense. Ma secondo Caro è sbagliato generalizzarla: sono diverse le realtà americane che rendono lo stile made in USA un modello sostenibile e stimabile.

LA GESTIONE DEI RIFIUTI

“Vero che voi non fate la raccolta differenziata?”: questa la domanda che Manuela Biondi – guida turistica di New York – si sente porre frequentemente dai turisti. La sua risposta, consapevole del pregiudizio (comunemente derivante da quella America dei media “che fa sempre notizia”), evidenzia la fierezza di vivere in una città in cui l’impegno per la sostenibilità ambientale si percepisce in ogni piccola e grande azione, dalla tanto discussa raccolta differenziata, alle misure in favore delle emissioni 0 prese dai condomìni. I sacchetti e le cannucce di carta e i frequenti autobus ibridi che viaggiano fra percorsi pedonali e ciclabili. Considerazioni che valgono per New York City – che con i suoi circa 9 milioni di abitanti è la più popolosa degli Stati Uniti d’America – ma non per tutti gli Stati e tutte le città, che invece fanno un uso più considerevole delle macchine, soprattutto per necessità.

Manuela dichiara inoltre che tutte queste misure non sono le uniche prese dal Comune di New York; il sindaco Adams ha definito alcune regole di gestione dei rifiuti per le abitazioni, nel tentativo di evitare che la spazzatura rimanga fuori dalle case per troppo tempo attirando insetti e roditori.

IL SENSO CIVICO

Ogni iniziativa volta ad aumentare l’attenzione per la sostenibilità viene considerata positivamente dai cittadini americani, consapevoli della sua importanza.

Ma il senso civico ha un limite, spesso dettato da questioni quali l’impegno e il risparmio economico. Ce lo racconta Silvia, laureata alla Columbia University di New York. Nonostante il tempo libero degli studenti americani sia spesso di più rispetto a quello degli italiani, la pigrizia spesso ha la meglio, anche su iniziative virtuose come la raccolta per riciclo di bottiglie di plastica in cambio di denaro. Aria condizionata e luci sempre accese, “senza alcuna preoccupazione ambientale”. E se parliamo di interesse economico, è recente il rifiuto dei cittadini della proposta avanzata da Kathy Hochul, Governatrice dello Stato di New York: il “congestion pricing”, il pedaggio da pagare per entrare nel distretto di Manhattan, come risposta al traffico incontrollato e ai suoi molteplici effetti.

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Alice Fusari

Alice Fusari

Giornalista pubblicista dal 2023, sempre in cerca di storie e realtà da raccontare, con la curiosità e la consapevolezza di vivere in un tempo di profondi cambiamenti e diversità crescenti. Laureata in "Linguaggi dei media", ha conseguito il master IPM all'università Cattolica del Sacro Cuore di Milano: per lei solo un punto di partenza.

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