“Il ricorso contro la mia assoluzione? Non possiamo controllare tutto, in campo e fuori. Sono molto deluso. Anche sorpreso, proprio non me l’aspettavo. Abbiamo avuto tre perizie e sono state tutte a mio favore”. Sinner in conferenza stampa accetta la domanda sul processo che lo vede imputato. Il caso non è chiuso per l’appello presentato dalla Wada, l’agenzia mondiale antidoping, contro la sua assoluzione in primo grado. La notizia è arrivata fragorosa proprio allo scadere dei termini, il che lascia pensare a una decisione controversa. Ma è impossibile accertarlo: “Non rilasceremo altre dichiarazioni in questo momento”, recita il comunicato ufficiale datato 26 settembre e reso pubblico oggi.
Jannik ha appena chiuso con una vittoria in rimonta il match surreale contro il russo Safiullin a Tokyo, sofferto per una infinità di motivi, ma non fa una piega. O meglio la fa però non la dà a vedere: poker face, lo chiamano a ragione. “L’ho saputo un paio di giorni fa”, ha spiegato davanti ai microfoni. Immaginabile lo stato d’animo con cui ha giocato: l’incubo di una squalifica è sempre lì, anche se per il momento non c’è sospensione e gli restano addosso i titoli e i premi conquistati finora.

Ma adesso che succede? “È opinione dell’agenzia che la constatazione di ‘nessuna colpa o negligenza’ non fosse corretta ai sensi delle norme applicabili. La Wada chiede un periodo di ineleggibilità compreso tra uno e due anni. La Wada non chiede la squalifica di alcun risultato, salvo quello già imposto dal tribunale di primo grado” dice il comunicato. Il meteorite caduto sulla testa di Sinner mette in pericolo la carriera di uno dei più grandi campioni dello sport tricolore: la pena richiesta dalla World anti doping Agency sarebbe un colpo letale. Eppure la vicenda pareva già morta e sepolta. Invece no. La battaglia legale continua perché la Wada ha impugnato l’archiviazione disposta dall’Itia, l’agenzia antidoping del tennis. Toccherà al Tribunale dello sport di Losanna sciogliere il gomitolo, ma i tempi saranno lunghi: più o meno sei mesi, tutto considerato. E il finale di partita è impronosticabile.
Urge il riepilogo delle puntate precedenti. Torneo di Indian Wells, Sinner viene eliminato da Alcaraz in semifinale. La sconfitta è niente rispetto al fatto che nell’urina del ragazzo di San Candido — nome che rispecchia alla lettera la sua personalità — vengono rilevate tracce di Clostebol, sostanza contenuta nel farmaco da banco Trifodermin. È uno spray (o una crema) venduto senza ricetta medica, con proprietà antisettiche e cicatrizzanti e una controindicazione: è considerato dopante. Dire che la presenza è minima vuol dire esagerare per difetto. Nel prelievo del 10 marzo scorso sono stati riscontrati 86 picogrammi per millilitro, scesi a 76 otto giorni dopo nel secondo campione. Ovvero una quantità inferiore a 0,1 milionesimi di grammo per litro. Tradotto in soldoni: è come se la punta di un cucchiaino di zucchero fosse sciolta nell’acqua di una piscina olimpionica.

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In conseguenza delle analisi Jannik viene sospeso per due volte dalla Itia senza che la notizia trapeli. Il ricorso fulmineo dei legali blocca però il doppio stop. Determinante è la ricostruzione dei fatti presentata dal team, con il corredo di testimonianze oculari: è stata contaminazione accidentale e trasversale. Il massaggiatore, spiegano gli avvocati, ha trattato Sinner dopo aver spruzzato lo spray sulla punta del proprio mignolo ferito da un bisturi il giorno prima. È così che una quantità infinitesimale della sostanza proibita è stata assorbita dal corpo dell’atleta. L’inchiesta va avanti e arriva a sentenza il 19 agosto con una assoluzione piena. Basata sull’unanime parere di tre esperti indipendenti incaricati dall’Agenzia: la sostanza non ha avuto alcun effetto dopante e l’ipotesi di una contaminazione accidentale è del tutto plausibile. Per di più l’esame delle precauzioni messe in atto solitamente da Sinner, attentissimo a evitare rischi di positività, porta alla decisione: non c’è stato né dolo né negligenza nel suo comportamento.
Non la pensa allo stesso modo la Wada, e la cosa lascia molto perplessi. Va ricordato in premessa che l’agenzia è finita spesso al centro di forti polemiche. Gli esempi più recenti riguardano il mancato sconto di pena al marciatore Schwazer — forse perché è altoatesino, chissà — e di contro il proscioglimento di 23 nuotatori cinesi positivi al Clostebol — forse perché la vice presidente è anch’essa cinese, chissà. Illazioni, dietrologie. Però i tre luminari che si sono pronunciati per l’innocenza di Jannik sono illustri componenti proprio dell’agenzia mondiale antidoping: Jean-François Naud, direttore del laboratorio Wada di Montreal; David Cowan, professore emerito del Dipartimento di scienze ambientali, analitiche e forensi del King’s College di Londra, ex capo del laboratorio Wada nel Regno Unito; Xavier de la Torre, vicedirettore scientifico del laboratorio accreditato Wada della Federazione medico-sportiva di Roma, l’unico a conoscere il nome del tennista sotto inchiesta in quanto perito di parte. Per essere espliciti: ricorrendo in appello, la Wada ha smentito tre dei suoi più autorevoli membri scientifici. Perché?

Probabilmente il can can mediatico sulla vicenda ha influito eccome. Il mondo del tennis ha commentato la vicenda con voci dissonanti e moltissima approssimazione: pochi hanno letto le 33 esaurienti pagine del provvedimento, accusando la Itia di aver usato due pesi e due misure. E poi Sinner in vetta alle classifiche dà fastidio a molti colleghi, a dispetto della gentilezza, la modestia e la lealtà che lo contraddistinguono. Secondo i colpevolisti è stato salvato perché può permettersi un pool legale da un milione di dollari, perché fa da traino ai tornei e alle tivù con la sua popolarità globale, perché gli sponsor miliardari reggono le fila del business. Per questo i giudici di primo grado hanno silenziato e insabbiato il caso.
In realtà la procedura è stata quella standard, nei modi e nella riservatezza. La stessa che ha mandato assolti due tennisti italiani di seconda o terza fascia, di quelli che inseguono premi per qualche centinaio dollari e non hanno a disposizione Perry Mason. Entrambi accusati di aver fatto uso del Trifodermin: sia Marco Bortolotti (pochi mesi fa) sia Matilde Paoletti (nel 2021) sono stati scagionati con formula piena, avendo dimostrato che la positività derivava da un’assunzione indiretta e involontaria. Fotocopie del caso Jannik, se non che la Wada ha ritenuto di non ricorrere nei loro confronti. I fatti dicono che questa decisione è un unicum: mai l’Agenzia mondiale aveva appellato il verdetto di un tribunale internazionale indipendente. Forse è vero che ci sono due pesi e due misure, ma a rovescio.
Né dolo né negligenza oppure il contrario, sarà questa la chiave del processo davanti al Tribunale arbitrale dello sport di Losanna. Se fosse accertata la mancanza di precauzioni da parte di Sinner — era consapevole del rischio e non ha fatto di tutto per evitarlo — l’azzurro sarà punito duramente. Tutto è dunque nelle mani di questo organismo autonomo presieduto dall’australiano John Coates, che sceglierà la corte tra 300 giuristi di 87 nazioni. “Parliamo sempre della stessa cosa. Forse vogliono solo assicurarsi che tutto sia nella posizione giusta”, si sforza di pensare positivo Jan. L’energia mentale è intatta e sarà la sua arma anche stavolta. L’ha dimostrato oggi nel momento cruciale del terzo set: avanti 2-0, ha concesso due palle del controbreak a Safiullin. Ha servito una palla a uscire, ribattuta dall’avversario con un candelotto che pareva non scendere più. Lui ha atteso, paziente, trovando l’attimo per asciugarsi la fronte col polsino. Poi ha sparato lo smash mettendo la partita in ghiaccio. Lucidità, resistenza, voglia di vincere, istinto della lotta lui ce li mette sempre. Il resto dovranno farlo i legali, che partono con un piccolo vantaggio: toccherà alla Wada portare le prove che Sinner è colpevole, e non sarà affatto facile.