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Il caso dei 10 milioni di dollari: Trump, l’Egitto e l’inchiesta insabbiata

Il Washington Post indaga su un sospetto trasferimento di fondi dai 007 egiziani al repubblicano poco prima dell'elezione nel 2016

Paolo CordovabyPaolo Cordova
Il caso dei 10 milioni di dollari: Trump, l’Egitto e l’inchiesta insabbiata

US President Donald J. Trump (R) meets with President Abdel Fattah Al Sisi of Egypt in the Oval Office of White House in Washington, DC, USA, 03 April 2017. ANSA/EPA/Olivier Douliery / POOL

Time: 2 mins read

10 milioni di dollari ritirati in contanti dai servizi d’intelligence egiziani e il dubbio che possano essere finiti nelle tasche di Donald Trump. Ne parla in un lungo reportage il Washington Post, raccontando una storia di intrighi e possibili insabbiamenti che parte 8 anni fa.

Cinque giorni prima che Trump entrasse alla Casa Bianca, alla fine del 2016, un’organizzazione associata ai 007 del Cairo ordinò infatti alla National Bank of Egypt di prelevare 10 milioni di dollari in banconote da $100. Una somma insolitamente alta delle riserve in valuta straniera dell’istituto, che fece inevitabilmente accendere le spie degli inquirenti di Washington. Prima che l’inchiesta venisse abortita anzitempo per decisione del procuratore generale Bill Barr (nominato dallo stesso Trump), che secondo alcune fonti decise di chiudere il caso con una velocità “sbalorditiva”.

Nel gennaio 2017, i funzionari della CIA informarono il Dipartimento di Giustizia riguardo a un sospetto trasferimento di fondi dal presidente egiziano Abdel Fattah El-Sisi a Trump. Le informazioni, secondo Langley, provenivano da una fonte confidenziale considerata molto affidabile. L’indagine fu assegnata al procuratore speciale Robert Mueller, che all’epoca stava già sondando i rapporti tra la campagna elettorale di Trump e il Cremlino nel cosiddetto “Russiagate”.

Il gruppo di lavoro coordinato dal procuratore, denominato “Team 10” (omaggio al valore del denaro in questione), scoprì poco dopo che Trump aveva avuto un incontro privato con Sisi il 19 settembre 2016, meno di due mesi prima delle elezioni presidenziali. L’incontro si era svolto durante l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York. Nel faccia a faccia, Trump aveva assicurato a Sisi che, con un repubblicano alla Casa Bianca, Washington sarebbe stato un “amico leale” del generale golpista – un netto cambio di rotta rispetto alla distanza che fino ad allora gli statunitensi avevano mantenuto dal presidente egiziano dopo il colpo di stato militare di tre anni prima.

Dopo la vittoria nel novembre 2016, il neoeletto presidente invitò Sisi a Washington come uno dei suoi primi ospiti e lo incontrò nuovamente durante il suo primo viaggio all’estero in Arabia Saudita. Ma nel frattempo, il “Team 10” ha continuato ad esaminare se i fondi egiziani potessero essere stati trasferiti a Trump, potenzialmente in violazione delle leggi elettorali USA – e se quegli stessi soldi potessero aver influenzato la decisione di Trump di investire 10 milioni di dollari propri nella campagna elettorale negli ultimi giorni prima delle elezioni del 2016.

Il progresso dell’indagine, secondo quanto scrive il Post, fu significativamente ostacolato da alti funzionari del Dipartimento di Giustizia, che impedirono l’accesso a una serie di documenti bancari essenziali. Formalmente Barr, all’epoca ministro della Giustizia di Trump, sollevò dubbi sulla sufficienza delle prove per continuare l’inchiesta, ordinando al procuratore degli Stati Uniti per il Distretto di Columbia, Jessie Liu, di esaminare personalmente le informazioni riservate per decidere se fosse necessario proseguire con l’indagine. Contestualmente, Barr istruì il direttore dell’FBI, Christopher Wray, a supervisionare attentamente gli agenti dell’FBI, che lui stesso definì “determinati” a scoprire la verità su Trump.

Ostacolata di fatto dai vertici del Dipartimento della Giustizia, l’indagine naufragò ufficialmente nel giugno 2020, quando il successore di Liu, nominato da Barr e inizialmente intento a continuare le ricerche, chiuse ufficialmente l’indagine. Il procuratore dichiarò che non c’erano prove sufficienti “oltre ogni ragionevole dubbio” – malgrado i disaccordi interni sull’argomento.

“Ogni cittadino americano dovrebbe essere preoccupato per il modo in cui è terminata questa indagine”, dichiarò una delle fonti informate sui disaccordi interni. “Il Dipartimento di Giustizia dovrebbe seguire le prove ovunque esse conducano – è il suo compito determinare se un crimine sia stato commesso o meno.”

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Paolo Cordova

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