Ha una brutta voce, sottile e un poco stridula. Non ha un bel sorriso perché esplode spesso in una risata isterica che non controlla. È rimasta a lungo nell’ombra in questi tre anni e mezzo da vice-presidente col compito di risolvere il problema enorme dell’immigrazione clandestina esplosa sotto Biden.
Kamala Harris, 59 anni, sposata con l’avvocato delle star Doug Emhoff, 10 anni fa madre adottiva di Cole e Ella, le due figlie che il marito ha avuto dal primo matrimonio con una produttrice cinematografica; col passare delle ore, se non scoppia la guerra civile all’interno del partito democratico, sarà elevata a erede di Joe Biden alla nomination del partito dell’asinello, con l’occasione (sfuggita a Hillary) di diventare, lei, la prima donna, e la prima donna di colore, presidente degli Stati Uniti. Il vecchio Joe le ha lasciato il posto mettendo una solida ipoteca sulla sua conferma come continuatrice dell’agenda Biden. Dovrà dare stimoli ed energia, al partito e alla causa dei democratici adesso in affanno.

Sulla carta, Harris ha una pagella da primati per essere stata la prima vice-presidente e donna di colore degli Stati Uniti, la prima procuratrice generale della California e la prima senatrice figlia di immigrati, di origine indiano-giamaicana.
A differenza di molti politici in Congresso che provengono da Harvard o Yale, Kamala è il frutto dell’educazione accademica californiana e fa parte della congregazione della “American Baptist Churches Usa”. Nata e cresciuta a Oakland per poi trasferirsi a San Francisco e Los Angeles, dal 2017 risiede a Washington, dopo il suo primo incarico al Senato ottenuto anche con l’appoggio di Barack Obama che ne ha sempre riconosciuta la tenacia e la determinazione insieme a un carattere d’acciaio dietro la sua vocina nasale.
Ma Barack non le ha ancora dato l’endorsement questa volta.

Considerata parte dell’élite democratica fin dall’inizio della sua carriera, anche quando venne eletta procuratrice della California, grande sostenitrice dei temi di emancipazione delle donne e del diritto all’aborto, considerata più a sinistra di Biden, Kamala Harris non ha mai perso un’elezione. Nella primarie del 2020 ebbe un durissimo scambio con Biden sulla segregazione degli studenti di colore anche nei trasporti scolastici in California, poi lasciò la corsa. Ma il vecchio Joe la scelse proprio perché lei proteggeva il fianco sinistro del partito; e oggi è da lì che le arrivano i primi sostegni, sono proprio il senatore Bernie Sanders e la deputata Alexandria Ocasio Cortez, insieme al blocco dei parlamentari di colore, ad averle dato l’appoggio che si rivelerà decisivo se si dovessero tenere delle mini-primarie per salvare la forma e lo statuto Dem.
In queste concitate settimane, mentre il partito dell’asinello si sta spaccando in gruppi di potere cinici e isterici, Harris come un buon soldato ha continuato la sua campagna elettorale per assicurarsi soprattutto il voto femminile, della gente ispanica e di colore , di ebrei – come suo marito – e degli indipendenti. Per il 75% degli iscritti democratici, anche se non ha molto peso personale all’interno del partito, “sarebbe un buon presidente”.

L’atto di lealtà verso Joe Biden sotto attacco, non poteva essere più chiaro. Ed è stata premiata di fatto col passaggio del testimone.
Ma in queste ore, anche dopo la grande rinuncia del vecchio Joe salutato come un eroe, torna a spuntare l’ipotesi , per molti suicida, di indire “mini primarie” per rimpiazzare l’intero ticket e interrompere la continuità. In questo caso Harris dovrebbe rivincere o finirebbe azzerata. Dovrebbe rimettersi in gara. Ma non sarebbe più la predestinata, e la guerra all’interno dei Dem diventerebbe sanguinaria e incivile. Il masochismo, così come il narcisismo, in politica sono sempre in agguato.