“L’idea che ci sia violenza politica in America di questo tipo è inaudita, non possiamo accettarlo” ha detto Joe Biden dopo l’attentato a Donald Trump durante un comizio in Pennsylvania. Il presidente in carica condanna, ovviamente, il gesto contro il rivale repubblicano: ma la violenza politica negli Stati Uniti non è inedita, anzi ha una lunga, sanguinosa storia. Presidenti uccisi e feriti, in carica o no, candidati assassinati: per mano di squilibrati, o supposti tali, sempre che, protestano i complottisti, non fossero sicari ben pagati.

Sono quattro i presidenti ammazzati mentre erano in carica. L’ultimo, John Fitzgerald Kennedy, fu ucciso a Dallas il 22 novembre 1963, mentre attraversava in visita la città sulla limousine decappottabile presidenziale accanto alla moglie Jacqueline. L’impatto sulla storia americana della morte di JFK – da allora ripercorsa da libri, film, sceneggiati, docufilm – fu immenso per il carisma del giovane presidente democratico, per la presenza per la prima volta della televisione a immortalare gli eventi, e per le polemiche a seguire (l’assassino Lee Oswald, catturato, fu a sua volta ucciso pochi giorni dopo in quello che fu considerato un altro gesto di follia, ma le teorie complottiste abbondano e vanno dai mandanti mafiosi a un’azione architettata dalla Cia).

Prima di JFK, morirono violentemente William McKinley (ucciso da Leon Czolgosz nel 1901), James A. Garfield (ucciso da Charles J. Guiteau nel 1881) e Abraham Lincoln, morto nel ridotto di un teatro per mano di John Wilkes Booth nel giugno 1865, in un altro momento cruciale della storia Usa; era appena finita la guerra civile che aveva sconvolto il paese per quattro lunghi anni opponendo il Sud secessionista al Nord, che vinse il conflitto. Gli effetti di quella guerra si sentono ancora oggi nella coscienza collettiva statunitense.
Ci sono stati però altri tentativi di assassinio contro presidenti: oltre a Trump, anche Theodore Roosevelt fu preso di mira una volta lasciata la Casa Bianca (nel 1912 da John Schrank), mentre Ronald Reagan fu gravemente ferito al torace nel marzo del 1981, all’inizio del suo primo mandato, da John Hinckley Jr, il quale voleva impressionare l’attrice Jodie Foster di cui si era invaghito vedendola recitare, giovanissima, in Taxi Driver di Martin Scorsese.

Fra i candidati uccisi in campagna elettorale, il più illustre fu Robert Kennedy, fratello minore di JKF, già ministro della Giustizia, che correva per la Casa Bianca nel 1968. Morì in giugno in California, dove si trovava per le primarie nello Stato, nelle cucine dell’hotel Ambassador di Los Angeles; restò per 26 ore in coma in ospedale. A sparare un migrante giordano-palestinese di 24 anni, Sirhan Sirhan, che fu condannato all’ergastolo. Non c’erano telecamere in quelle cucine al momento esatto dello sparo: restano i colpi sulla registrazione audio di un giornalista. Come per la morte di JFK, l’assassinio di Kennedy provocò un profluvio di teorie politiche.
Pazzia o complotto dunque? Molti di questi attentati furono messi in atto da persone (tutti uomini) motivati dal desiderio di cambiare la politica degli Stati Uniti; alcuni attentatori furono dichiarati pazzi, altri avevano almeno dei problemi mentali. Secondo il Dipartimento Usa della Giustizia, la stragrande maggioranza degli attacchi è storicamente opera di squilibrati, che avessero o meno mire politiche.
Degno di rilievo che in tutti questi casi sia sempre stata coinvolta un’arma da fuoco, pistola o fucile.

La verità è che la possibilità della violenza politica è sempre presente nella mente degli americani, e quindi di Hollywood. Se il presidente muore, a sostituirlo è il vicepresidente, come accadde per Lyndon Johnson dopo la morte di JFK: è praticamente la sua funzione principale. Ma che succede se muore tutto il governo? Se l’è chiesto in un delirio di paranoia David Guggenheim, il creatore della serie Designated Survivor (in onda su Netflix): Kiefer Sutherland è Thomas Kirkman, un ministro di secondo piano, undicesimo in linea di successione, che è appunto il “sopravvissuto designato”; l’unico che non era al Congresso ad ascoltare il discorso sullo Stato dell’Unione. Quando un attentato fa saltare in aria Capitol Hill, Kirkman si ritrova in mano le redini del paese (seguono tre stagioni in cui si dimostra all’altezza del compito).

Più carico di sfumature l’assassinio che racconta Stephen King, il maestro dell’horror, in un visionario romanzo giovanile, La zona morta. Il suo protagonista ha la capacità di vedere il futuro, e si spaventa di fronte a un candidato presidenziale di estrema destra, popolarissimo ma violento e, lui sì, mentalmente instabile. Cerca di ucciderlo in un comizio, ma non ci riesce; però ottiene di screditarlo perché il candidato cerca vigliaccamente di farsi scudo dietro un bambino strappato alla mamma, e si rovina la reputazione.
Donald Trump però non ha commesso alcuna vigliaccheria. L’immagine che i suoi elettori hanno di lui, da ieri, è invece quella di un eroe coraggioso, che con il viso sporco di sangue – la pallottola di Thomas Crooks gli ha graffiato un orecchio – resiste agli uomini di sicurezza che vogliono portarlo via dal palco, si rialza e agita il pugno verso la folla come a dire “sì, sto bene”, “sì, lotto con voi, non mi abbatteranno”.