In adempimento di un dovere istituzionale, alla vigilia del Consiglio Europeo di giovedì 27, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha illustrato a Camera e Senato la posizione che ha in mente di rappresentare, in relazione alle decisioni che il Consiglio è chiamato ad esprimere sugli alti incarichi Ue. Il contenuto delle Comunicazioni della premier su questo punto appare illogico, contraddittorio, inopportuno. Il che lo rende autolesionista, in quanto indebolisce la capacità di affermazione degli interessi italiani che un primo ministro deve difendere.
L’illogicità sta nel rivendicare un ruolo per l’Italia (in realtà un ruolo per la linea politica del governo) in quanto paese fondatore e importante. Logica impone che se vuole un incarico, Meloni segua la prassi comunitaria consolidata, ovvero indichi quale incarico desidera e offra, in spirito di servizio alle istituzioni unionali (di questo si tratta) il candidato più adatto scegliendolo dal mazzo dei migliori e apprezzati italiani: Draghi, per fare un esempio. Immediatamente dopo cerchi alleanze per far passare la proposta. Se le dicono di no, scateni l’inferno e vincerà in seconda battuta, perché allora sì che il peso storico del paese (non di questo o quel governo) si opporrà a un impronunciabile diniego.
In quanto alla contraddittorietà: Meloni propone che nell’Unione si segua un metodo diverso da quello che lei stessa ha adottato in Italia, dove è la maggioranza a decidere su tutto. Il suo governo fa e disfa, occupa ogni ambito possibile del potere pubblico, con l’unico limite posto dal minimo di tempo necessario a farlo, e i laccioli di leggi, Quirinale, giudici, Corte Costituzionale. L’Unione non è la confederazione di stati patriottardi propugnata da Meloni e altri conservatori ma, appunto una Unione con evidenti elementi di sovranazionalità (come il Parlamento Europeo) tuttora vigenti, in base ai trattati sottoscritti anche dall’Italia. Nell’Unione si decide in base alla forza paese (il numero degli abitanti), alla forza dei governi (quindi del colore politico delle maggioranze), alla forza delle istituzioni sovranazionali (per stare al Parlamento, su base del voto transnazionale dei gruppi politici). È un metodo farraginoso, lungo, spesso inconcludente, ma certamente ultrademocratico perché le “maggioranze” che decidono sono molteplici e devono forzatamente armonizzarsi, per non mandare in stallo le istituzioni. La cosiddetta maggioranza Ursula (popolari, socialisti e progressisti, liberali, forse verdi) ha una visione del presente e soprattutto del futuro europeo, sufficientemente diversa dai conservatori, da essere orientata a tenerli fuori dalle leve del potere unionale. Federali e confederali negli Stati Uniti fecero una sanguinosa guerra civile per decidere il modello col quale governarsi. Il capo di un governo dovrebbe tenere distinto l’interesse nazionale da quello del partito europeo che presiede (Meloni è a capo del gruppo di destra ECR).
I toni alti non appartengono alla tradizione delle trattative nel Consiglio, nato come riunione di vertice “al caminetto”, ed evoluto come una stanza di compensazione e di indicazioni strategiche. Suonano inopportuni e lesivi del galateo istituzionale. Gli incarichi sono tanti nell’Ue e l’Italia, se presenterà candidati autorevoli, troverà soddisfazione alle sue legittime aspirazioni. I commissari europei, per un esempio, saranno decisi dalla presidente della Commissione, benché – si noti – potranno essere respinti dal Parlamento Europeo.
C’è un’altra considerazione, a conferma dell’inopportunità dei toni alti. In questa fase l’Italia, oltre che isolata (e a pochi giorni da un costosissimo G7 dove, secondo Meloni “la nostra Nazione è riuscita ancora una volta a stupire e a tracciare la rotta”) è debole assai. Banche e Bce iniziano a scaricare i Btp facendo ulteriormente salire il potenziale di un debito sovrano che sta cadendo nella trappola del rinnovo delle “cambiali”. Se si va al rinnovo di 350 miliardi di titoli in scadenza per finanziare la spesa pubblica corrente, significa che non si riuscirà a far ripartire la crescita, ad aumentare la produttività, a operare sulla struttura sociale, oltre che economica. In politica la forzatura sulle riforme volute dal governo, l’elezione diretta del premier (il cosiddetto ‘premierato’) e l’autonomia differenziata delle regioni, sta spaccando il paese.
Auspicabile che, nell’interesse italiano, Meloni adotti un atteggiamento diverso, improntato a duttilità e coscienza della sua doppia debolezza: come governante italiana, e come presidente di uno schieramento politico europeo di minoranza. Al tavolo del Consiglio, e agli altri tavoli istituzionali otterrebbe certamente di più.
L’occasione è buona per un ragionamento di medio lungo periodo sui due ruoli rivestiti attualmente da Meloni, e sulle conseguenze che la loro interpretazione apporta al rapporto tra Italia e Ue.
Alla leader di governo, per risanare la finanza italiana, serviranno tempi lunghi e decisioni impopolari; dovrà abbandonare i toni propagandistici e confrontarsi seriamente con le opposizioni per una tregua necessaria, ad esempio mettendo da parte il progetto di premierato. Ha un vantaggio: nessuno può incolparla per la situazione, visto che ha passato decenni all’opposizione. Ne approfitti.
Alla presidente dei conservatori europei, si offre la possibilità di intervenire da subito e in modo relativamente agile, per gettare alle ortiche il progetto di Europa confederale del suo partito, che predica livelli di integrazione inferiori persino a quelli previsti dal grande conservatore Winston Churchill, il cui progetto d’Europa confederale fu sconfitto dalla storia nonostante carisma e sincera vocazione europeista dell’autore. Così facendo, porterebbe i conservatori lontano dall’estrema destra, dentro l’alveo del conservatorismo novecentesco, pronti a contribuire alle decisioni che riguardano il presente e il futuro dell’Unione. Se, come è probabile, Meloni non adotterà questo percorso, preferendo flirtare con l’Orbán di turno, tirando affrettate conclusioni dalla prevista vittoria lepenista alle elezioni francesi, per contare nel futuro dell’Ue avrebbe la sola alternativa di allettare la destra democristiana europea ad abbandonare il partito dei Popolari.
Un gioco complesso e rischioso. I Popolari potrebbero reagire ponendo a Forza Italia una sorta di aut aut sull’alleanza con l’estrema salviniana e il conservatorismo meloniano. E, nel partito di Tajani, qualcuno potrebbe ricordare che la stagione politica italiana con le maggiori riforme fu quella del centro-sinistra organico; perché non riprovarci?
Le radici nazionaliste della militanza politica di Meloni, la stretta frequentazione del sovranismo come quello di Vox in Spagna, le hanno probabilmente impedito di capire le interconnessioni sempre più stringenti tra istituzioni Ue ed evoluzione politica interna ai 27. Spinelli aveva visto giusto nella battaglia per l’elezione diretta dei parlamentari, prevedendo che l’Unione, con quel voto, si sarebbe politicizzata e avrebbe, poco alla volta, iniziato a fare politica sul serio.