Sulla scia delle polemiche e delle manifestazioni intorno all’offensiva israeliana a Gaza, l’università di Harvard ha deciso di non prendere più posizioni su questioni non rilevanti per la sua funzione accademica.
L’università accetta così le raccomandazioni di un comitato di docenti – l’Institutional Voice Working Group – che ha suggerito di ridurre drasticamente i messaggi su temi attuali. Questo significa che l’università non emetterà più dichiarazioni ufficiali di empatia, come quelle fatte per l’Ucraina e per le vittime degli attacchi di Hamas del 7 ottobre in Israele. Secondo Noah Feldman, co-presidente del comitato, Harvard non è un governo e non dovrebbe avere una politica estera o interna; tuttavia le riconosce il diritto di intervenire su questioni politiche che influenzino direttamente le sue operazioni, come la proposta di tassare i patrimoni delle università.
Insomma il rapporto con raccomanda una totale “neutralità istituzionale” anche se questioni sociali; principio per esempio promosso dalla University of Chicago, e adottato da altri atenei come Stanford University e Northwestern.
Per esempio, Feldman ha ricordato – parlando al New York Times – la proposta dell’allora presidente Donald Trump di raccogliere “miliardi e miliardi di dollari” applicando imposte alle donazioni private alle università; dichiararsi contrari a questo progetto “sarebbe pienamente nelle funzioni dell’università”. Allo stesso modo, sarà ancora ammesso darsi da fare in tribunale per le politiche di “affirmative action”, i canali privilegiati per l’accesso all’università di studenti appartenenti alle minoranze.
Harvard è stata uno degli epicentri – assieme alla Columbia University – delle proteste degli studenti per l’operazione israeliana a Gaza.
Secondo alcuni critici fra cui l’ex presidente dell’ateneo Lawrence H. Summers (il cui mandato finì sotto attacco perché in un seminario aveva ipotizzato che la scarsità di donne in certe discipline scientifiche fosse dovuta anche a differenze innate nelle capacità matematiche), Harvard non ha reagito abbastanza in fretta dopo la lettera pubblicata da una organizzazione studentesca che riteneva Israele “interamente responsabile per la violenza in corso”.
La controversia è costata il posto alla presidente di Harvard, la politologa Claudine Gay (prima donna nera a ricoprire l’incarico, che ha lasciato dopo solo sei mesi), che dopo la lettera degli studenti aveva rilasciato una serie di dichiarazioni condannando le atrocità di Hamas, ed era stata accusata di aver ceduto alle pressioni dei donatori e degli ex allievi che finanziano l’ateneo.
Funzionerà la politica del silenzio? Per Feldman, “la transizione non sarà facile”; per altri, è uno specchietto per le allodole. “La neutralità istituzionale non esiste” ha detto Peter Wood, presidente della National Association of Scholars. “Chi dice di attenersi alla nautralità poi trova una miriade di scappatoie per dire ‘in questo caso non vale’. Le università in materia di politica continueranno a fare quello che hanno sempre fatto”, ovvero parlare.
Più a monte, la politica della neutralità per altri è contraria allo spirito stesso che dovrebbe informare la ricerca universitaria: “lo spirito di ricerca, di dibattito; l’obbligo legale di creare un libero spazio di discussione. I dibattiti più appassionati, più interessanti e fruttuosi di questo semestre sono avvenuti all’interno dell’accampamento degli studenti in protesta” aveva detto alla Voce all’inizio di maggio Nara Milanich, docente ordinaria di storia alla Columbia University.