I riflettori che si spengono. Le tasche che si svuotano. Troppo facile rispondere così alla domanda: perché Mike Tyson torna sul ring a 57 anni? Certo, sarà anche per questo. Ma forse è una ragione più profonda a muovere il Kid Dynamite – lo chiamavano così nei gloriosi momenti della sua carriera di distruttore. I pugili rimangono tali quando scendono dal quadrato e la loro parabola, luccicante o triste, finisce. È qualcosa di misterioso a rendere indissolubile quel legame. “Posso valutare l’idea che la vita sia una metafora della boxe – di uno di quegli incontri che si protraggono all’infinito, ripresa dopo ripresa, jab, colpi a vuoto, corpi avvinghiati, un niente di fatto, di nuovo il gong, e poi di nuovo, e tu e il tuo avversario così simili che è impossibile non accorgersi che il tuo avversario sei tu”, scrive Joyce Carol Oates, la grande narratrice americana prestata al pugilato. E aggiunge: “La vita è come la boxe per molti e sconcertanti aspetti. La boxe però è soltanto come la boxe”. Allo stesso modo Michael Gerard Tyson è soltanto come Tyson, un uomo incapace di arrendersi.
Non è stata una vita facile, la sua. Considerato uno dei migliori pugili di tutti tempi, il più giovane campione del mondo dei pesi massimi a 20 anni, 4 mesi e 22 giorni, detentore del titolo dal 1986 al 1990 con un’appendice nel ’96, fra gli sportivi più pagati della sua epoca, una fama da baddest man on the planet, è rimasto nell’anima il ragazzo nero cresciuto a Brownsville, quartiere di Brooklyn che non augurereste al peggior nemico. Vittima e carnefice di sé. Uno molestato dal vicino a sette anni, padre assente, madre insegnante perduta nel bicchiere, passato attraverso le risse di strada, i furti, l’arresto a 11 anni, una baby gang, le rapine con la pistola, la prigione e tutto quel che è facile immaginare. A tirarlo fuori dal ghetto e dal carcere è stato il pugilato, attraverso un maestro che l’ha preso a cuore più di un figlio: Cus D’Amato, il nume tutelare, l’angelo custode, il veterano che del ring conosceva ogni segreto, l’allenatore che gli trasmise abnegazione, disciplina, volontà, integrità, indipendenza, carattere. “Puoi avere un padre e cosa significa? Non significa nulla. Cus era la mia spina dorsale”, diceva di lui Tyson.
L’importanza di avere un esempio, una bussola, un punto di riferimento per la vita non ha eguali. Durante uno dei soggiorni in riformatorio, conobbe Muhammad Ali in visita ai ragazzi dell’istituto. Fu un’illuminazione. “Voglio diventare come lui”, promise. D’Amato fece il resto, mancò solo nella sera del trionfo: una polmonite se l’era portato via prima che il suo pupillo conquistasse il titolo. L’ascesa era stata folgorante. Tyson aveva alle spalle 27 match e altrettante vittorie – 25 per ko – quando il 22 novembre dell’86 a Las Vegas bastarono due riprese a schiantare il detentore Trevor Berbick. Con una dedica particolare, visto che proprio il suo avversario aveva messo fine alla parabola di Ali. Iron Mike ce l’aveva fatta. L’outsider affamato, il fuorilegge primitivo aveva conquistato il mondo. Era l’avvento di un giovanotto piccolo di statura, appena 175 centimetri, ma con un collo grosso come non si vedeva dai tempi di Carnera. Un picchiatore dai muscoli possenti, spietato quanto Dempsey e Marciano: A terrible beauty is born – è nata una terribile bellezza, titolò Life Magazine.
È stata la sua forza primordiale ad affascinare il pubblico. E ad alimentare la leggenda. Il successo lo travolse: l’applicazione monastica in palestra, che l’aveva portato fin sulla vetta, pian piano gli scivolò dai guantoni. Fu una discesa progressiva, sottolineata dalla cronaca più che dal ring. Il primo passo falso fu scegliere Don King per consigliere, salvo poi accusare il manager di averlo rovinato economicamente. Il secondo fu il rapporto turbolento con la prima moglie Robin Givens (di tre che ne ha avuto): lei chiese il divorzio e lo portò in tribunale per maltrattamenti. La vita privata intaccò la violenza del suo pugilato. Così, in maniera del tutto inattesa, l’11 febbraio 1990 a Tokyo cedette le tre cinture iridate allo sfavoritissimo James Douglas: la sua prima, deflagrante sconfitta. Non l’ultima. Cadde malamente anche nel ’92, condannato a tre anni per aver violentato la modella Desiree Washington. Ormai aveva perso tutto. Lo davano per finito, eppure uscito dal carcere seppe risorgere per quel era: il campione del mondo. A fare le spese della sua vendetta sulla realtà fu l’inglese Frank Bruno, nel ’96, spedito al tappeto senza pietà. Fu però una recita effimera.
Gli eccessi ormai lo dominavano. Donne, alcol, cocaina, la bancarotta: lo splendido atleta non esisteva più. C’era però, eccome, il fenomeno da baraccone, l’utile idiota che frutta soldi agli impresari. La storia si ripete prima come tragedia e poi come farsa, predicava Karl Marx. La belva che mangiava le orecchie ai rivali continuava a essere attraente pur con gli artigli spuntati.
“Sono uno stupratore condannato, sono un violento, sono un animale. E loro vogliono che io sia un animale sul ring”, denunciò nella sua autobiografia intitolata True. Tornò a combattere, qualche volta a vincere e troppo spesso a perdere. L’ultimo match vero risale al 2005: una umiliante sconfitta. Ci ha riprovato quattro anni fa. Ci riproverà il 20 luglio ad Arlington, in Texas, davanti a una platea di 80mila paganti e agli spettatori di Netflix. Di fronte avrà il pugile (?) e youtuber Jake Paul. Del resto lo spettacolo è l’anima nera di un gioco che muove 300 milioni di dollari. Joe Louis, Sugar Robinson, Leon Spinks, Hearns, Holyfield e perfino Ali hanno accettato di mostrarsi come caricature sul quadrato, al tramonto, per l’impossibilità di smettere. I guerrieri vanno rispettati: combattere è comunque un mestiere nobile e crudele, tira fuori ciò che non vorresti mai sapere di te e dell’altro. “Nel giusto contesto, il dolore è qualcosa di diverso dal dolore”, chiosa Joyce Carol Oats mentre suona il gong e il match finisce.
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