La transizione dalla fase adolescenziale al college è uno dei riti di passaggio più complicati e significativi di sempre nella storia di ogni famiglia ma per i genitori statunitensi rappresenta una vera e propria rivoluzione, in negativo: improvvisamente si trovano a fare i conti con uno strano e spiacevole senso di vuoto, meglio noto come empty nest.
Letteralmente significa “nido vuoto” e non a caso allude alla mancanza, quasi improvvisa anche se a lungo covata, di un membro della famiglia: ogni giovane studente desideroso di iscriversi all’università ad un certo punto deve salutare quel cantuccio caldo e rassicurante in cui è cresciuto, in nome della ricerca della propria indipendenza.
Se dal versante figlio/a si tratta di uno slancio in avanti, un catapultarsi verso prospettive future nel tentativo di costruire il proprio avvenire, ecco che dalla parte dei genitori la separazione è meno piacevole: un cambio radicale delle abitudini, la revisione immediata degli spazi ed degli orari, il riequilibrio dell’asseto familiare e, soprattutto, una profonda sensazione di smarrimento non sono che alcuni dei sintomi manifestati da taluni; in certi casi, la situazione è talmente acuta da richiedere l’intervento di un sostengo esterno. Di un empty nest coach, per l’esattezza.
Negli Stati Uniti l’idea di affidarsi alle mani esperte di una persona competente e disposta ad accompagnare adulti feriti dalla “perdita” della prole in una nuova fase è infatti sempre più in voga. Senza tale ausilio, alcune situazioni familiari sembrano addirittura vacillare, come in preda ad una crisi identitaria proprio perché fino a quel momento molti adulti hanno vissuto in funzione dei propri figli e della loro crescita e, di un tratto, viene chiesto loro di resettare ogni conoscenza ed esperienza sino ad allora collezionata in nome di un passaggio che si presenta come tutto tranne che lineare.
Il punto è che il cambiamento non investe solo i giovani neouniversitari ma ricade anche sull’ambiente che li ha sostenuti fino ad allora, ed i coach lo sanno perfettamente: James Ramsden, impegnato nel seguire vari clienti da remoto nonché autore del canale TikTok “The Empty Nest Coach”, descrive questo fenomeno alla stregua di “essere licenziati da un lavoro avuto per 18 anni”.
Più i familiari sono implicati nella vita dei figli, più la separazione è stressante. Ogni legame, tuttavia, porta con sé la propria storia e di conseguenza deve sviluppare un modo unico ed autonomo nel gestire il dolore relativo a tale esperienza. La coach Natalie Caine rivela di essersi imbattuta in varie persone che le hanno domandato con assoluta incredulità “Anche gli altri genitori si sentono così?”, come se quella condizione fosse un’incomprensibile “punizione” di epica portata. Ma bisogna soffrire, o meglio, si deve passare attraverso un percorso arduo per arrivare ad una sentita riconciliazione con se stessi. I coach entrano dunque in gioco in questo determinato istante: quando ad una prospettiva di smarrimento, subentra invece l’identificazione di una via.
Gruppi di auto aiuto, podcast, la frequentazione di corsi, viaggiare e perfino le chiamate terapeutiche su Zoom sono un ottimo punto di partenza al costo di 100$-250$ l’ora.
Non tutte le storie però sono demarcate da questa sorta di dipendenza e passività nei confronti degli empty nest coach: Christine Oakfield, residente appena fuori Philadelphia, si è vista volare via la figlia in Virginia e ha dovuto in un primo momento ricorrere a gruppi di aiuto, alla lettura di blog che trattavano il tema in questione, fino all’ascolto di podcast. Questi ultimi si sono tuttavia rivelati la strategia ideale per favorire il suo processo di guarigione e sono stati anche l’inizio di un’intuizione geniale: “Perché non farne uno anch’io?”, si è detta. E così ha aperto “Your Empty Nest Coach” raggiungendo oltre 125,000 downloads.
Oggi Oakfield riceve migliaia di email ogni giorno da parte di persone grate di avere il suo supporto da remoto.