La figlia del vento vive in una scultura di bronzo che sta ad Anzola Emilia, all’ingresso della fabbrica Carpigiani dove si fanno le macchine per i gelati più famose al mondo. La statua è intitolata L’ostacolista e mai definizione fu più appropriata. Ritrae una ragazza volante, la gamba destra sospesa nell’aria a scavalcare una barriera invisibile. Lanciata verso il traguardo di un futuro luminoso. La figlia del vento si chiamava Ondina Valla, l’opera era stata realizzata dal fratello Rito per celebrarne l’impresa: accadde allo stadio di Berlino, il 6 agosto del ’36 quando battè tutte nella corsa degli 80 metri a ostacoli. Quella ragazza bolognese di 20 anni e 78 giorni fu la prima italiana a vincere una medaglia d’oro alle Olimpiadi.

Ondina in realtà non era il suo nome. Il padre Gaetano la registrò all’anagrafe come Trebisonda in omaggio a Trabzon, città turca bella come mille e una notte. Mamma Andreana, dopo quattro figli maschi, voleva a tutti i costi una femmina e così arrivo lei. In ritardo, per la prima e unica volta.
Ad appiccicarle quel diminutivo fu un’allenatrice. La piccola era un talento precoce, già alle elementari vinse le prime gare distinguendosi nel salto in alto prima che negli ostacoli, per rivelarsi presto atleta a tutto tondo. Riusciva in qualunque specialità. Bambina prodigio, nel ’30 conquistò il titolo tricolore nelle due discipline predilette e fu convocata dalla Federazione per i campionati continentali di Praga. Vittoria dietro vittoria, iI mondo cominciava ad accorgersi di lei: nel ’33 ai Giochi internazionali universitari di Torino, stadio Mussolini, si prese il primo posto nel salto in alto, i 100 metri, gli 80 a ostacoli e la staffetta 4×100.
Ormai era lanciatissima, animata dal desiderio di prendersi la rivincita su un’ingiustizia patita. Quale? L’anno precedente c’erano state le Olimpiadi a Los Angeles, edizione migliore di sempre per il medagliere azzurro. Ondina era tra i convocati, però all’ultimo momento — sottovoce — i dirigenti del Coni le fecero capire che non ci sarebbe stato spazio per lei nella spedizione oltreoceano: Pio XI aveva posto il veto alla partecipazione. Il Papa non vedeva di buon occhio l’attività sportiva femminile e soprattutto “sarei stata l’unica donna della squadra di atletica, mi dissero che avrei creato problemi su una nave piena di uomini”, svelò lei tanto tempo dopo.
Non che il governo fosse molto più lungimirante del Vaticano. Il fascismo era diviso sul ruolo delle donne nella società: l’etica del regime le considerava mogli e madri addette al focolare domestico, ma il Duce aveva ben compreso il valore propagandistico dei successi agonistici. Largo dunque alle brave giovani italiane, e la Valla lo era. Aveva perfino donato le sue medaglie durante la campagna dell’Oro alla patria. Si ritrovò perciò in pista alle Olimpiadi di Germania 1936, con il Führer seduto in tribuna, nel giorno della finale degli 80 metri a ostacoli: il primo giovedì di agosto che valeva la vita intera.

Faceva insolitamente freddo, Ondina sentiva le gambe dure e il massaggiatore le diede due zollette di zucchero imbevute di cognac per sciogliere i muscoli: butta giù che ti farà bene. Quinta corsia, pettorina numero 343. Nella corsia tre c’era un’altra bolognese che conosceva a memoria, l’amica-rivale Claudia Testoni: l’avversaria più pericolosa con la favorita tedesca Steuer. Ondina e Claudia erano cresciute spalla a spalla sotto le Torri, nella stessa scuola e nella stessa squadra. Entrambe eclettiche. Forti, fortissime, però una doveva dimostrarsi adesso ancor più forte dell’altra.
Allo sparo dello starter le ragazze partirono a razzo: gli 80 metri si consumano in un lampo, neppure 12 secondi e tutto passa per sempre. Tre passi e un ostacolo, tre passi e un ostacolo è il mantra. Si tuffarono in quattro sul filo di lana: chi ha vinto? “Valla, Valla, Valla”, scandì alla radio Nicolò Carosio. Ci volle il fotofinish per capire e il destino premiò Trebisonda, per tutti e per sempre Ondina. Quanto alla Testoni, finì giù dal podio con lo stesso tempo delle altre: quarta di un soffio, solo un battito di ciglia e qualche millesimo di secondo a separarla dalla felicità. Fu sua la medaglia di legno che nessun atleta vorrebbe mai portarsi a casa.

La vincitrice baciò la medaglietta della Madonna di San Luca che teneva al collo, poi si consegnò alla gloria eterna nell’Olympia Stadion. “Di quel pomeriggio a Berlino rammento la grandiosità dell’apparato. Di Hitler, invece, ho un ricordo confuso. Mi volle conoscere e stringere la mano, disse qualcosa ma parlava in tedesco e io non ci capii nulla. Poi non ho dimenticato le feste, il sindaco e la banda ad accogliermi alla stazione di Bologna”, raccontò più tardi all’ortopedico Guglielmo De Lucchi, che divenne suo marito nel ’44, e al loro unico figlio Luigi.
Dopo il trionfo, dopo il viaggio di nozze in bicicletta sotto le bombe, finita la guerra Ondina continuò a gareggiare malgrado la spondilosi vertebrale che l’affliggeva. E continuò a vincere anche in pedana: nel ’52, a Pescara dove si era trasferita, conquistò il titolo abruzzese di lancio del disco e il secondo posto nel getto del peso. Proseguì a gareggiare e vincere pure l’alter ego Testoni, correndo e saltando in lungo e in alto. Nemiche nello stadio ma sorridenti e abbracciate nelle tante foto che testimoniano il sincero affetto reciproco. Finché Claudia ha preceduto Ondina di otto anni sulla linea d’arrivo dell’esistenza: “Pensare a lei che è scomparsa è pensare alle cose più belle della mia vita”, fu la dedica della figlia del vento, la campionessa olimpica che ha smesso di volare oltre gli ostacoli il 16 ottobre del 2006.
