Era il pomeriggio del primo maggio di trent’anni fa. Circuito di Imola, si disputava il Gran Premio di Formula Uno: accadde tutto in un attimo, all’inizio del settimo giro. Senna era davanti, tallonato da Schumacher vicinissimo: la corsa era appena iniziata, la lotta tra i due fuoriclasse sarebbe stata il motivo del giorno. Un giorno di festa. Terza prova del campionato mondiale, l’inseguimento di Ayrton al rivale tedesco che lo precedeva in classifica e la rincorsa al quarto titolo iridato. All’improvviso la Williams Renault del brasiliano ebbe uno scarto sulla destra, alla curva del Tamburello. Seguì una scena irreale: la macchina tagliò la via di fuga dritto per dritto. Finì fuori controllo sulla sabbia, poi lo schianto senza difesa contro il muro malgrado la frenata e il rimbalzo sull’asfalto. L’inquadratura in campo largo, dalla telecamera sull’elicottero, mostrò l’immagine innaturale di quel gioiello della tecnica ridotto a un delfino spiaggiato. Le lamiere squarciate, i rottami, il mozzo di una ruota senza pneumatico. Colpa del piantone dello sterzo — avrebbero chiarito le successive perizie — che aveva ceduto, abbandonando il campionissimo alla sua sorte. Ma se il braccetto della sospensione anteriore destra non fosse penetrato proprio nei pochi centimetri di visiera del casco, Senna sarebbe forse uscito illeso dalla monoposto.

E l’uomo dentro il relitto come sta? “È Ayrton, è Ayrton”, urlò la folla. Il grido degli spettatori più vicini alla curva fu un tamtam che si propagò come onda sugli spalti. Poi il silenzio, la gente con le mani sul volto. L’incredulità. Lui era immobile nell’abitacolo. Il casco pareva intatto, ma la testa era reclinata da un lato. Nessun movimento, forse un unico sussulto, probabilmente lo spasmo finale. La speranza durò un tempo infinitesimale, lasciando subito spazio all’inutile preghiera collettiva. Tutti avevano capito, tutto era finito. Senna era volato via assieme ai suoi sogni, e ai desideri irrealizzati di un pilota irripetibile.

Il primo maggio, festa del lavoro, come d’uso le redazioni erano vuote: l’indomani i giornali non sarebbero stati in edicola. Ma l’evento che si stava compiendo fu una scossa elettrica contagiosa. Partirono ovunque le telefonate ai giornalisti in libera uscita. Il centralino de il Resto del Carlino — il quotidiano di Bologna che con i suoi inviati avrebbe dovuto raccontare la bellezza della corsa nell’autodromo di casa. — richiamò in servizio i cronisti per un’edizione straordinaria. Come sta, come sta? Le notizie erano frammentarie, ma i vecchi del mestiere avevano già intuito la verità: “Non può farcela…” La prima pagina venne preparata su uno sguardo d’archivio. Era la foto degli occhi di Ayrton dietro la visiera, persi in chissà quali pensieri, con un titolone crudele che sapeva di sentenza inappellabile: Il sangue di Senna. Dopo i primi disperati soccorsi in pista, era stato vanamente trasportato in eliambulanza all’Ospedale Maggiore, non lontano dalle Due Torri. Un prete gli diede l’estrema unzione: il certificato di morte, stilato alle 18.40, precisò che non aveva ripreso conoscenza neppure per un istante. A quell’ora l’autodromo era ormai vuoto. Vuoto di ogni emozione. Niente più vittorie o sconfitte: soltanto un dolore immenso.
Trent’anni dopo la ferita mortale non si è rimarginata, ma paradossalmente mantiene vivi i ricordi del popolo dei tifosi. Senna è sempre lì, sul circuito, non se n’è mai andato. Le bandiere italiane e brasiliane, gli striscioni portati da ogni angolo del pianeta, i mazzi di fiori, i biglietti d’amore, le sciarpe appese alla rete di recinzione nel luogo fatale, sono la testimonianza palpitante di un affetto incorrotto dal tempo. Così come l’omaggio costante dei tifosi alla statua dedicata ad Ayrton al Tamburello: ritrae un Senna pensoso, seduto sul muretto dei box, che pare quasi riflettere su quel che poteva essere e non è stato. Aveva compiuto 34 anni quaranta giorni prima della tragedia. Era il simbolo dell’intero Brasile, non meno di Pelè. L’ultimo viaggio verso la sua terra fu un volo in business class per decisione del comandante che non volle lasciare la bara nella stiva. “Il feretro era avvolto solennemente nella bandiera verdeoro, sistemato tra i sedili vuoti”, spiega Leo Turrini, unico giornalista italiano sull’aereo. All’arrivo a San Paolo trovò ad accoglierlo un corteo lungo trenta chilometri e una processione di lacrime, rispetto, gratitudine. Il presidente Cautiero Franco proclamò tre giorni di lutto nazionale e dispose che fossero celebrati funerali di Stato.

Era destino? Sì e no. Sicuramente i regolamenti varati per il campionato del ’94 avevano messo in pericolo l’incolumità dei piloti, tanto che il weekend di Imola fu punteggiato da una catena di incidenti senza precedenti. Già nelle prove libere del venerdì Rubens Barrichello se l’era cavata miracolosamente. E il sabato, nelle qualifiche, perse la vita Roland Ratzenberger. L’austriaco era l’ultimo arrivato nel circo della formula uno: la sua fine scosse tutti, ma Senna ancor di più. Aveva appena lasciato la McLaren per salire sulla Williams. La vettura era instabile, difficile da guidare proprio a causa dell’eliminazione dei dispositivi elettronici imposta dalle nuove norme. “Si era preso la pole position e sabato pomeriggio andai a Imola per salutarlo. Eravamo amici dai tempi di Pescara dov’era a volte ospite di Gino Pilota, uno dei manager Benetton. Anche in quei pochissimi giorni di vacanza, da perfezionista quel era, veniva a correre sulla pista d’atletica dell’Adriatico, mentre i calciatori si allenavano in campo con me e Giovanni Galeone”, spiegò Edy Reja che a quell’epoca era il tecnico del Bologna. E aggiunse: “Mi vide, mi venne incontro, restammo a parlare per un po’. Era nervoso, inquieto. Confidò che non era soddisfatto di com’erano andate le prove: qualcosa non lo convinceva nell’assetto della vettura. Il giorno dopo, in macchina andando allo stadio, sentii alla radio la notizia dell’incidente. Pensai subito che Ayrton aveva avuto un presagio”.

Il mio nome è Ayrton, e faccio il pilota
E corro veloce per la mia strada
Anche se non è più la stessa strada
Anche se non è più la stessa cosa
Anche se qui non ci sono i piloti
Anche se qui non ci sono bandiere
Anche se forse non è servito a niente
Tanto il circo cambierà città
Tu mi hai detto “Chiudi gli occhi e riposa”
E io, adesso, chiudo gli occhi
Lucio Dalla ha cantato così la lacerazione struggente di quell’assenza. L’uomo dei record, l’icona dei motori, il genio del volante, uno dei più grandi piloti di ogni tempo. Il ragazzo che diceva di sé: “Correre, competere, è nel mio sangue. Fa parte di me, fa parte della mia vita. L’ho fatto sempre e prevale su tutto il resto”. Senna era credente, la fede lo accompagnava come una seconda pelle. Il suo epitaffio è inciso sulla tomba nel cimitero di Morumbi: niente mi può separare dall’amore di Dio.