È da più di un mese che non scrivo su Gaza, Israele e su quello che ci ruota attorno. Siamo tutti sfiniti dall’inutilità delle parole, ormai è difficile distinguere tra ragionamenti e slogan, tra isteria e dolore, tra impegno e retorica che pervadono tutto quello che riguarda il calendario degli orrori dal 7 ottobre in poi. E dire che ci sono state cose che avrebbero potuto dissuaderci dalla corrida dei commenti riprodotti in batteria come in un gioco da tavolo in cui vince chi dice l’ultima parola, ma niente, ormai va tutto avanti per inerzia verso il peggio, like a rolling stone. Prendete per esempio la nuova puntata della storia, quella dedicata all’Iran.
Avrebbe potuto essere l’occasione per fare ragionamenti semplici, tipo ma se il primo aprile il generale terrorista iraniano (diamo sempre per buone tutte le ragioni elencate da Israele) fosse stato ucciso, assieme a qualche altra vittima collaterale, diciamo il giardiniere o il custode, o chi passava di là non a Damasco ma a Roma; se tutto fosse avvenuto in via Nomentana 361, cioè bombardando l’ambasciata iraniana in Italia noi che avremmo detto e scritto? Prima ancora di titolare con quintali di inchiostro “l’Iran attacca Israele” per raccontare giustamente preoccupati la risposta di Teheran avremmo espresso indignazione per un impensabile attacco alla nostra sovranità territoriale. O no? Invece niente, il bombardamento con morte al consolato iraniano di Damasco è passato quasi sotto silenzio, al massimo i più sapienti nel circo dei commenti hanno tirato fuori la logica del doppio standard per cui, sapete com’é, Israele fa sempre così, anche quando uccide all’estero si sta sempre difendendo.
Va bene ma se diamo per buono questo allora concediamo all’Iran quella pericolosissima (e peraltro costosissima per tutti) messa in scena dei droni e dei razzi annunciata per tempo e distrutti come ai videogiochi dalla santa alleanza arabo occidentale che per fortuna si è stretta sui cieli di Gerusalemme. Invece no, abbiamo condannato l’Iran e ora siamo preoccupati per la risposta di Israele. E già siamo lì a commentare l’eventuale patto di Biden con Netanyahu che potrebbe rinviare un contrattacco israeliano in cambio del via libera alla invasione di Rafah.
Ecco allora, pensate a quanto sono inutili queste parole confrontate con quelle che raccontano la sconfitta vera della speranza a Gaza, l’ultimo articolo del giornalista Sami al-Ajrami, che dice addio alla striscia “con strazio o gioia”, perché sa di essere diventato bersaglio e lascia indietro tutto quello che ama. E chi resta, dice, è condannato a mesi di inferno.
I suoi racconti pubblicati su Repubblica, e quella redazione sa quanto gli deve nella difesa di questo mestiere, ci hanno accompagnato in questi mesi come contrappunto a tutte le analisi da divano che abbiamo letto e scritto finora. Se al suo diario aggiungiamo l’immagine della donna senza volto che abbraccia una bambina, sua nipote, senza volto perché avvolta in un piccolo lenzuolo bianco -e noi l’abbiamo subito ribattezzata La Pietà con sprezzo del ridicolo- allora davvero le nostre parole su Gaza e quello che gli ruota attorno sono diventate non solo inutili ma anche imbarazzanti. La foto almeno ha vinto il premio del World Press Photo di questo sciagurato anno. Per Sami al-Ajrami tutta la nostra stima e che possa tornare a casa, prima o poi.