Può capitare. Come scavare un pozzo in un terreno incolto e trovare un vaso romano pieno di monete d’oro. Oppure immergersi in un fondale poco frequentato ed entrare nel relitto di un galeone spagnolo. È indovinare un terno al lotto, è comprare il biglietto vincente della lotteria.
Stavolta il colpo di fortuna ha premiato una famiglia napoletana di lungo corso. Lassù in soffitta, tra i mobili accatastati alla rinfusa, un baule seminascosto ha rivelato un tesoro di carta. Una catasta di vecchi manifesti ripiegati che reclamizzavano i Grandi magazzini Mele: l’invenzione di due fratelli, Emiddio e Alfonso, che nel 1889 issarono il loro cognome sull’insegna del più grande emporio di Napoli e di tutto il Meridione, all’angolo tra via San Carlo e via Municipio. Vendevano di tutto. Dall’abbigliamento per uomo e donna ai profumi, dai tendaggi all’arredamento, scarpe, cappelli, pagliette, bastoni da passeggio, guanti, ventagli, ombrelli.
Merce di grande raffinatezza a prezzi accessibili. Geniali pionieri della grande distribuzione — ricalcando il modello del parigino Au Bon Marché e di Macy’s a New York, oltreché il negozio milanese Alle Città d’Italia — i Mele affidarono la pubblicità alle più famose matite dell’epoca: una squadra di signori grandi firme, perlopiù reclutati dalle Officine grafiche Ricordi. Si chiamavano Marcello Dudovich, Aleardo Villa, Franz Laskoff, Achille Beltrame, Leopoldo Metlicovitz, Gian Emilio Malerba. Autori di cartelloni straordinari che trasmettevano un messaggio potente e attrattivo: comprate, comprate, comprate.

Perché quelle decine di affissi siano finite nel baule dimenticato nessuno può spiegarlo. Molto più facile dire dove poterli ammirare: campeggiano nel catalogo dell’asta Bolaffi in calendario a Torino il 16 e 17 aprile, assieme ad altri esemplari di grande rilievo e a pezzi meno pregiati ma comunque ciascuno con un tratto distintivo. La vendita all’incanto è monumentale, come non si vedeva da tempo per quantità e qualità: 630 lotti di sicura caratura internazionale.
Per ritrovare qualcosa di simile bisogna tornare all’asta del 2007, se non addirittura alla prima in assoluto allestita in Italia nel 1996. A promuoverla fu l’intuizione visionaria di Alberto Bolaffi, re del francobollo e nipote del fondatore della casa: “L’affiche — spiegava — rappresenta l’unica rilevante testimonianza, a livello figurativo, delle più significative trasformazioni del Novecento. Surrogando la pittura descrive in ogni sua variante l’epoca del consumismo”. E dunque ecco la crociera sul Rex, il rombo di un motore, una dama sofisticata alle corse dei cavalli. Un biscotto, un cioccolatino, un sorso di liquore. Insomma un tuffo nel passato prossimo e remoto e l’incursione nella memoria individuale e collettiva: il manifesto è la madeleine di Proust, una sirena dall’irresistibile magnetismo.

Qualche esempio aiuta a capire. In catalogo c’è il pneumatico Michelin disegnato da Dudovich, protagonista il Bibendum simbolo del marchio, che adagiato dentro un copertone consulta la cartina di viaggio (stima 10mila-15mila euro). Del maestro triestino spicca anche il poster in anticipo sui tempi, valutato fino a 16mila euro, che propaganda la Società torinese automobili elettrici — ma d’Annunzio non sosteneva che l’automobile è femminile? Né possono mancare i manifesti turistici e di viaggio: treni di lusso, compagnie di navigazione, linee aeree. Il genio di Leonetto Cappiello trionfa nei manifesti commissionati da Campari: il Bitter e il Cordial. Ugualmente ricca la sezione riservata ai giornali: dal genovese Caffaro al quotidiano palermitano L’Ora fondato da Ignazio Florio. Ma una delle perle è senz’altro il capolavoro di Giovanni Maria Mataloni: Incandescenza a gas brevetto Auer, poster di rara eleganza e raffinatezza, icona dello stile Liberty. “Queste opere — commenta Filippo Bolaffi, amministratore delegato e quarta generazione dell’azienda — sono nate come multipli attaccati ai muri di città e Paesi. La loro natura effimera ha fatto sì che con il passare del tempo siano sopravvissuti in un numero limitato di copie, magari avventurosamente confinati in qualche cantina o in un deposito abbandonato. È la rarità ad aumentarne il valore, oltre naturalmente all’importanza artistica”. Il record italiano resiste dal 1999 e appartiene al Fiat in pista di Plinio Codognato, battuto per 220 milioni di vecchie lire. Un’eccezione che conferma la regola. Perché basta molto molto molto meno per portarsi comunque a casa un pezzetto di storia.
