Vorrei prendere spunto da due episodi di cronaca italiana riportati dalla stampa questa settimana. Il primo, riportato da Il Resto del Carlino il 24 marzo, si svolge nello scenario a me familiare: la mia scuola, il Liceo Classico Minghetti pubblico a Bologna.
Il Preside del Liceo, Roberto Gallingani, ha scritto agli studenti e alle loro famiglie due lettere “preventive” che illustravano le conseguenze, anche legali, di una possibile occupazione del Liceo e si è trovato di fronte all’ostilità verbale non solo degli alunni, ma soprattutto dei loro genitori.
Ancora più grave l’episodio del San Gabriele, liceo privato parificato di Roma, riportato da Il Messaggero il 25 marzo, dove il Preside è stato brutalmente attaccato dal compagno della madre di un ragazzo sospeso per avere usato parole offensive e volgari contro un insegnante. La violenza fisica ha causato lesioni gravi, ospedalizzazione con prognosi di 30 giorni.
Queste interazioni negative fra i genitori che prendono indiscriminatamente le difese dei figli adolescenti e la scuola, o altre istituzioni della società (comunità sportive, ad esempio), si sono fatte sempre più frequenti e sono, a mio parere, simboliche di un metodo educativo (o assenza di) che sembra sia prevalente nelle famiglie di oggi.
New York stessa non è immune da episodi analoghi. Ne potrei citare uno riportato dal NYT qualche mese fa che coinvolge una famiglia dell’Upper East Side. Al ristorante di un famoso hotel, un ricco ragazzino, difeso dai genitori, si è “vendicato” contro lo staff per essere stato più volte escluso dal bar non avendo l’età legale per ordinare alcolici.
Viene da chiedersi cosa sia cambiato nell’atteggiamento dei genitori di “generazione X“ fino ai “millennial”, così portati a giustificare (o perfino a essere conniventi con) i comportamenti antagonistici o addirittura antisociali dei figli. È un fenomeno nuovo che merita un’analisi che tenga in considerazione fattori sociali e psicologici.
Questi nuovi genitori, nati dopo il ’68, sono cresciuti nella cultura della de-repressione. La psicoanalisi insegnava a liberare i propri impulsi repressi, sessuali, aggressivi o un mélange di tutti e tre. Il super-ego (agente morale e punitivo della psiche) era visto come troppo stretto: c’era bisogno di allentarlo. Si poteva vivere più liberamente e allo stesso modo allevare i figli in piena libertà. Il messaggio, fondamentalmente positivo, può essere andato al di là delle intenzioni come spesso succede nei cambiamenti epocali, creando un’oscillazione del pendolo più ampia del dovuto.
Il super-ego (in gran parte costituito dalle regole morali date dai genitori e dagli educatori) non solo si è ammorbidito ma, in alcuni casi, dissolto.
I genitori si sono messi allo stesso livello dei figli in un rapporto amichevole e paritario, di cui non ne hanno bisogno perché hanno già i loro coetanei amici, e non di autorevolezza, di cui invece hanno estrema necessità per imparare a gestire le regole e le gerarchie della società.
Freud scriveva sul tema dello sviluppo del bambino: “Una frustrazione vale di più di mille gratificazioni”. Qualche “no” al momento appropriato (e sempre nel contesto di love and nurturing) ha un valore educativo superiore: costituisce il modello primo per l’interazione con le figure di autorità future. Il “no”, la rejection o anche solo il limit setting che inevitabilmente il giovane dovrà affrontare nel suo percorso di crescita al di fuori della famiglia non sarà così devastante e distruttivo della propria autostima, se ne avrà avuto esperienza da piccolo in un contesto generale di amore e accettazione. Il contrario porterà, invece, a paura, esplosioni di rabbia e una pericolosa estensione della fase di dipendenza dai genitori fino alla pre-adolescenza e adolescenza.
Questo concetto è bene illustratato in un importante articolo per la società americana apparso questo mese su Atlantic: “Don’t Tell America the Babysitter’s Dead“ di Faith Hill.
Avere il primo lavoro come baby-sitter ha sempre rappresentato per le ragazze dai 12/13 anni fino alla fine della High School un rite of passage. Non solo un modo per guadagnare il proprio pocket money al posto di una allowance, ma anche per mettere alla prova alcune abilità domestiche acquisite in famiglia, attraverso le sempre raccomadabili chores: piccole, graduali responsabilità come portare fuori l’immondizia, far fare una passeggiata al cane, e in questo caso badare un bambino, metterlo a letto, preparargli o almeno scaldargli la cena. Pare che le tween e teen del giorno d’oggi non cerchino più questa iniziazione al mondo del lavoro adulto. I genitori non hanno provveduto a dar loro le basi necessarie né si aspettano questi primi passi di emancipazione dalle loro figlie.
L’articolo non parla dell’analogo per i ragazzi (spalare lo neve o tagliare il prato) né del possibile rovesciamento di questi ruoli dovuto a una diversa visione ora acquisita della propria identità sessuale, ma il senso rimane invariato.
Ci si può chiedere se questo sia solo un cambiamento sociale di cui prendere atto o il frutto di non-educazione dei figli da parte della generazione X e dei millennial alla responsabilità personale che dovrebbe essere il primo segno di una nascente maturità.