È morto a 75 anni Giandomenico Picco, ambasciatore friulano ed ex diplomatico Onu. Grande figura della diplomazia mondiale, è stato al centro di importanti negoziati negli anni Ottanta e Novanta durante la guerra Iran-Iraq e il rapimento di cittadini occidentali da parte di Hezbollah in Libano.
Ripubblichiamo un articolo scritto da Francesco Semprini per La Voce di New York nel dicembre 2020.
Il mio primo ricordo di Giandomenico Picco risale a una quindicina di anni fa, lavoravo alla realizzazione di un documentario autoprodotto – “Why is Kofi Annan not a woman?” – un approfondimento sulla parità di genere nella leadership delle Nazioni Unite. L’auspicio era che, in prossimità della fine del mandato del settimo segretario generale Onu, al 38 esimo piano del Palazzo di Vetro potesse finalmente salire una donna.
Le cose andarono diversamente, ma di quella esperienza mi rimasero impresse le parole di Picco, il quale raccontò come le sue esperienze di negoziatore nei quattro angoli del Pianeta gli avessero permesso di conoscere tante protagoniste di un’instancabile attività diplomatica, sovente meno palpabile e immediata rispetto ai colleghi uomini, ma senza dubbio di cruciale importanza nell’intreccio di equilibri che governano le relazioni internazionali. Ricordo come rivolgendosi proprio a loro l’ex sottosegretario generale dell’Onu disse di tenersi pronte a pensare “out of the box”, ovvero di uscire da parametri della convenzionalità perché così avrebbero colto le opportunità a cui certi meccanismi pregiudiziali impedivano loro di accedere. Un messaggio pacato, apparentemente burbero, ma in realtà intriso della perentorietà tipica del friulano Doc di Udine.
L’impressione che ne ebbi fu una conferma dell’immagine che mi ero fatto di lui, un uomo preceduto dalla sua formidabile storia professionale di “soldato disarmato della diplomazia”, come lo definì l’ex segretario generale Javier Pérez de Cuéllar e come lo raccontano libri, giornali e colleghi più attempati. Un profilo che ha sollevato in me un’istintiva curiosità sin da quando ho mosso i miei primi passi nelle cronache internazionali e che forse ha contribuito a sviluppare la mia fatale attrazione per le zone polverose.
Make a long story short, dicono gli americani, della lunga carriera di Giandomenico Picco si possono ripercorrere alcune tappe fondamentali, lasciando agli archivi la lettura dei curriculum integrale e la rassegna di onorificenze che ha collezionato in oltre tre decenni. Picco ha servito per olre trenta anni le Nazioni Unite nel campo della Risoluzione dei Conflitti fino al grado di Sottosegretario Generale. È stato personalmente e direttamente in prima linea nei negoziati che hanno portato alla fine dell’invasione sovietica in Afghanistan nel 1988 e della guerra Iran-Iraq nello stesso anno, e ha partecipato a importanti missioni di peacekeeping nei Balcani.

Ma il capitolo più celebre della sua esperienza è stato il negoziato Onu, dal 1989 al 1992, per il rilascio degli ostaggi occidentali in Libano, rapiti dai guerriglieri che confluiranno in Hezbollah, così come negli anni si è speso per riportare a casa altri dispersi o detenuti senza un giusto processo. Le milizie sciite erano state protagoniste di una lunga serie di rapimenti: in quegli anni scompaiono 104 persone, tra cui 26 americani, 16 francesi, 12 inglesi, solo per menzionarne alcuni. L’11 settembre 1985, nel giorno del suo compleanno, le milizie rapiscono anche l’italiano Alberto Molinari, vicepresidente della Camera di Commercio a Beirut. “Non è mai stato ritrovato”, è il grande cruccio di Picco. Tra gli altri ci sono anche il reverendo anglicano inglese Terry Waite, che aveva provato a negoziare un’intesa, e il giornalista dell’AP Terry Anderson, rapito il 16 marzo 1985 e, dopo la detenzione più lunga, rilasciato nel 4 dicembre 1991. Il capo della stazione Cia William Buckley, rapito nel marzo 1984, torturato, giustiziato o morto per un infarto davanti al boia, il colonnello dei marines Higgins, impiccato. I terroristi gettano nella spazzatura i corpi dei due americani, monito infame.
Tanti, troppi. Così il funzionario Picco, conscio del legame che esiste tra le milizie sciite e l’Iran degli ayatollah, recupera alcune vecchie amicizie americane, come quella dell’attuale capo della diplomazia di Teheran Javad Zarif, conosciuto mentre studiava negli Usa. Sono il lasciapassare per tentare quanto meno un negoziato. Ottiene il via libera da Pérez de Cuéllar, il resto lo fa il coraggio di un diplomatico di prima linea che con volto incappucciato e rannicchiato nel portabagagli di una mercedes sconquassata raggiunge gli aguzzini con un groppo in gola e la paura in pancia, “il pensiero a moglie e figlio che temevo di non rivedere”.
Un viaggio dopo l’altro sino a trattare col capo dei capi dell’organizzazione, convincendolo. Gli ultimi, liberati dalle segrete di una Beirut devastata da tre lustri di guerra, sono i volontari tedeschi Thomas Kemptner e Heinrich Struebig rapiti nel 1989, rilasciati il 17 giugno del 1992. “Sono stati i miei giorni più belli”, racconterà nel suo libro “Man Without a Gun. One Diplomat’s Secret Struggle to Free the Hostages, Fight Terrorism, and End a War”. Un uomo senza pistola ma con cuore e coraggio di grande calibro, come testimoniano le onorificenze morali e materiali dei Paesi coinvolti nella liberazione: “Il presidente George H. W. Bush mi offrì la cittadinanza americana, con garbo rifiutai”. L’epilogo della vita professionale di Picco è però scritto nel suo Dna. Il sottosegretario si scontra con le gelosie dei tecnocrati Onu, scettici sul “diplomatico disarmato”, e lui lascia il Palazzo di Vetro.
Il privilegio che porto dietro come un straordinario bagaglio culturale è aver parlato di tutto questo proprio con lui quando lo chiamavo nei suoi uffici di Gdp Associates, la società di consulenza strategica che ha aperto nel 1994. A volte nel corso di interviste, altre volte in chiacchierate meno impegnate con cui provavo a carpire qualche retroscena ancora non detto. Come quelle avute cinque anni fa, in coincidenza di una mia missione proprio in Libano per intervistare alcuni esponenti di Hezbollah riguardo al loro coinvolgimento nel conflitto siriano contro Al Nusra e lo Stato islamico. Quel partito di dio discendente diretto dei miliziani che Picco conobbe nelle sue lunghe notti tenebrose tra le macerie di Beirut. In quel periodo, era il 2015, stavamo organizzando la presentazione di un libro con la Associazione dei corrispondenti alle Nazioni Unite, “Il Califfato del terrore: Perché lo Stato Islamico minaccia l’Occidente”, di Maurizio Molinari.

Fu proprio Maurizio a voler con insistenza Picco nel panel per trasformare la presentazione in una conversazione con l’ex sottosegretario generale e capire cosa era cambiato dalle sue guerre alla nuova guerra al terrore che dominava la scena regionale e internazionale. Un appuntamento preceduto da alcuni caffè davanti al Palazzo di Vetro, dove Picco arrivava nel suo impeccabile doppiopetto grigio, ombrello nero e passaporto blu in tasca (caso mai non mi vogliano fare entrare in questo Palazzo) e telefonate, anche ad ore improbabili, in cui ripercorreva il passato e si interrogava sul futuro. Uno dei suoi pallini è sempre stato il simbolismo del numero 8, me ne parlò in una mail inviata dopo aver avuto un diverbio con un casa editrice per l’uso della data 8.8.88. pregandomi di essere rigoroso nella compilazione della biografia con cui lo avremmo presentato all’Unca. “La chiave della mia vita è il numero 8 – ripete ancora come un mantra nel profilo social – Sono nato l’8 ottobre 1948, e mediai il cessate il fuoco della guerra Iran-Iraq, dopo otto anni di guerra l’8.8.1988 e alla fine degli Anni 80, iniziai il negoziato per il rilascio degli ostaggi occidentali”.
Nemesi seguite a interrogazioni secolari come quando si chiede cosa attenda il Vecchio continente dinanzi al tramonto della realtà stato-nazione e le difficoltà ad emergere dell’entità macro-regionale “Europa”. Discussioni affrontate prima e dopo quella lunga conferenza dove Giandomenico Picco ha fatto ricorso al suo piglio talvolta oltre la perentoria pacatezza del friulano Doc di Udine, tradendo oltre alla matura sfiducia per una istituzione che non sente più come sua, anche una certa fatica fisica. Da lì sono seguiti altri contatti dove scetticismo e stanchezza hanno pian piano preso il sopravvento.
“Funzionerebbe il suo coraggio spavaldo con Isis, con i jihadisti che detengono in Siria il gesuita padre Dall’Olio e l’imprenditore Sergio Zanotti?”. “Il mio mondo era più semplice, Usa e Urss comandavano – ha risposto Picco -. Ora è una giungla. Io andai mentre tutti mi dicevano ‘fai carriera, chi te lo fa fare?’, perché non credevo che un diplomatico Onu potesse essere equidistante tra terrore e tolleranza. Ho pagato dei prezzi duri, pubblici e privati, per le mie scelte”. “Fiero quando racconta quelle notti a Beirut, 25 anni fa – chiosa Riotta – lo sguardo di Picco si adombra davanti al presente, ‘perché è duro, e solitario, e senza paga, il mestiere di eroe, lui stesso confessa”.