Una missione di pochi giorni tra Washington, per presenziare all’incontro con la comunità organizzato dal COMITES della capitale, e New York, per partecipare ad alcuni eventi comunitari e fare il punto della situazione del partito negli Stati Uniti nell’attuale quadro politico. Christian Di Sanzo, deputato alla Camera in rappresentanza degli italiani per Nord e Centro America e Segretario del Partito Democratico negli USA, accetta volentieri di rispondere alle domande de La Voce.
Onorevole Di Sanzo, i COMITES sono stati spesso poco funzionanti, anche per problemi di litigiosità interna. Può dirci cosa ne pensa?
“I COMITES sono nati come rappresentanza democratica, quindi attraverso delle elezioni. Di fatto svolgono l’azione dei consigli comunali per gli italiani all’estero. Questo ovviamente genera logiche di maggioranza e opposizione che sono normali, se uno crede nella democrazia, e fanno parte del processo democratico. Sono organismi di rappresentanza senza un organico dietro che mandi avanti l’attività. Quindi, le persone che si occupano dell’esecuzione delle iniziative sono le stesse che le discutono e devono approvarle. Questo perché come Paese ci abbiamo dedicato poche risorse. Ma c’è una possibilità di rinascita. Al momento siamo riusciti a portare dentro ai COMITES la nuova emigrazione, come per esempio a Houston, che è la realtà che seguivo personalmente come presidente prima di dimettermi, ma anche in tanti altri luoghi negli Stati Uniti. Siamo quindi stati in grado di aggiornare la comunicazione, i social media, che sono diventati essenziali per un’azione vera verso la comunità”.
Perché, negli Stati Uniti al momento del voto, i COMITES non riescono a trasformare gli italiani residenti all’estero in elettori attivi e numerosi?
“Ne abbiamo parlato a novembre con Giorgio Silli, il Sottosegretario del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale per gli Italiani nel mondo. Da quando è cambiata la modalità con cui è possibile esercitare il proprio voto solo attraverso una pre-registrazione, si è riscontrata scarsa affluenza. È diventato molto più complesso. L’idea sarebbe tornare al processo precedente quando la scheda elettorale arrivava a casa, come per le elezioni politiche, raggiungendo così affluenze analoghe, o studiare altri meccanismi simili. Non è detto che necessariamente non ci sia la volontà di votare, ma il meccanismo di registrazione al voto attuale, attraverso modulo cartaceo, pone un ostacolo non indifferente”.

E si può tornare a una situazione precedente che garantiva una più alta affluenza?
“Sì, ma le risorse dedicate a oggi sono scarse, circa 1 milione totale per tutti i COMITES nel mondo. Questo budget è calato del 50% nel 2023, che si protrae al 2024. Nella legge di bilancio, insieme ai miei colleghi del PD, abbiamo chiesto prima un ripristino della dotazione originaria, tagliata nella finanziaria a fine del 2022. Una decisione contraddittoria per un governo che diceva che era dalla parte degli italiani all’estero, che parlava di un ministero a sé per gli espatriati e che invece ha tagliato i finanziamenti agli enti di rappresentanza. Quindi oltre ad avere meno risorse di funzionamento, vi è l’intenzione di risparmiare anche sui fondi per le elezioni”.
È un dato di fatto che, dall’altra parte, i servizi forniti dal Consolato e le richieste di passaporti italiani qui a New York sono aumentati. L’Italia torna a esercitare una forma di attrazione. Su cosa state puntando in questo momento?
“Partirei dai servizi consolari per i nostri connazionali. Stiamo spingendo il governo per avere un aumento delle risorse umane del Ministero degli Affari Esteri; grazie alla nostra attività, circa 700 persone sono state assunte nell’ultimo anno tramite vari emendamenti alla finanziaria e al decreto legge “Pubblica amministrazione” dello scorso maggio. All’interno di questa legislazione, siamo riusciti a inserire anche un riadeguamento del salario dei dipendenti a contratto dei Consolati. Venendo pagato in euro e vivendo in Paesi come gli Stati Uniti dove la vita è molto costosa, il personale a contratto ha subito anni dove il cambio in dollari ha ridotto lo stipendio anche del 20%. Questo intervento serve a coprire, almeno in parte, il gap che si crea soprattutto a causa dell’inflazione. Il problema fondamentale è che il riadeguamento dei contratti non viene applicato in automatico, ma deve essere riconfermato ogni anno nella legge di bilancio, come siamo riusciti a fare questo dicembre. Ma nel 2022 non era stato rinnovato in finanziaria e abbiamo dovuto insistere in altri provvedimenti. Si tratta di una misura di sicurezza economica per tremila famiglie. Anche perché spesso, a causa dei salari non competitivi, il personale cerca lavoro alternativo e i Consolati perdono forza lavoro importante”.
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A quali altre iniziative vi state dedicando?
“Tre settimane fa si è conclusa la discussione in Commissione Affari Esteri sulla proposta di legge, dell’onorevole Toni Ricciardi e mia, affinché i Consolati possano trattenere una quota dell’incasso per i servizi che offrono. Per il momento, la quota che i cittadini pagano per ottenere, per esempio, il passaporto viene versata interamente a Roma. Noi abbiamo chiesto che il 30% venga trattenuto e rimanga a disposizione dei Consolati in modo che lo possano usare direttamente per migliorare i servizi e aumentare il numero dei servizi erogati; dopo i primi anni, la percentuale si abbasserà al 15%, anche perché, con gli efficientamenti, saranno di più i servizi offerti e sarà maggiore la percezione dell’incasso e quindi i fondi trattenuti. Stiamo aspettando il parere del Ministero delle Finanze perché questa è una misura significativa, soprattutto per i grandi Consolati.”
E che tipo di riscontro ha avuto all’interno del governo?
“Per il momento, da come è andata in Commissione, questa possibile norma sembra godere anche del favore della maggioranza. Fatto resta che bisogna vedere come procede nel Ministero delle Finanze.”
Vi sono stati, negli ultimi provvedimenti sugli italiani all’estero, elementi di tensione con la maggioranza?
“Ne cito principalmente due: il taglio alle agevolazioni fiscali nel caso di rimpatrio e la legge sul Made in Italy.”
Sono diminuite le facilitazioni per i rimpatri?
“Sì, c’era una legge approvata durante il governo Renzi per promuovere i rientri dopo la fuga di cervelli e favorire il ripopolamento di certe aree. Nel caso in cui un italiano avesse vissuto all’estero per almeno due anni e avesse poi deciso di tornare in patria, la norma prevedeva una riduzione del 70-90%, in base alla regione di residenza, sull’Irpef del nuovo contratto di lavoro, per compensare il fatto che gli stipendi in Italia sono più bassi rispetto a quelli negli altri Paesi, e rendere l’Italia attrattiva. Inizialmente si distinguevano due categorie: i docenti e ricercatori e i lavoratori rimpatriati. Ma il Ministero dell’Economia con il ministro Giorgetti ha deciso per il 2024 di ridurre le agevolazioni e la platea, rendendole disponibili solo agli impieghi ad altissima specializzazione. Eravamo disposti a ritrattare la legge su vari punti, come il requisito di permanenza all’estero, ma il governo non ha voluto neanche discutere nel merito. Ma la cosa più grave è che siano stati cambiati i criteri il 27 dicembre per farli entrare in vigore il 1 gennaio, sconvolgendo i piani di tutte le famiglie che si erano già organizzate su quella base e avevano deciso di rimpatriare nei primi mesi del 2024 e che sono rimaste senza le agevolazioni. Un’azione di questo tipo alimenta solo la sfiducia verso il governo e le istituzioni.”
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Per quanto riguarda il Made in Italy, invece, che cosa non va?
“La ritengo un’occasione sprecata perché di fatto si sarebbe dovuto coinvolgere in modo serio il sistema Paese all’estero – che è quello che promuove l’Italia fuori dai confini – e invece non è successo. Abbiamo chiesto a più riprese che si potesse includere nel ddl “Made in Italy”, da una parte, un maggior ruolo dell’ICE e, dall’altra, un aiuto alle Camere di Commercio estero, che si occupano di assistere le piccole e medie imprese nel mercato internazionale. Per un’economia come la nostra, che si fonda sulle PMI, se riuscissimo a trovare una chiave per sostenerle con l’export avremmo un’opportunità di grande crescita. Ma non è stato dato un vero ruolo al sistema Paese all’estero. Anzi hanno istituito una giornata del Made in Italy, a partire da quest’anno il 15 aprile, che nella legge viene chiesto di celebrare solo ai comuni, province e regioni, senza considerare le attività da organizzare fuori dai confini nazionali per promuovere i nostri prodotti. Mi sembra paradossale. Se ci fossero possibilità, ci sarebbero diverse realtà pronte a lavorare per il nostro Made in Italy, ma bisogna disporre di un’azione più strutturata. Io ho proposto alla Camera un ordine del giorno per coinvolgere il sistema Paese all’estero ed è stato approvato – pare quindi che, grazie alla mia azione, alcuni Consolati organizzeranno eventi in questa direzione.”
Il sistema Paese all’estero funziona?
“Le esperienze sono molto varie. Funziona, ma purtroppo non in maniera strutturata, a seconda della volontà delle singole persone che ne fanno parte e che a volte coinvolgono anche delle associazioni italiane nel sistema. Diventa fondamentale avere una buona azione di coordinamento da parte della rete consolare e credo che anche noi parlamentari possiamo giocare un ruolo di sostegno alle istituzioni e associazioni che operano all’estero. Da parte mia questo impegno non mancherà grazie anche alla mia presenza sul territorio”.