Studiano, sperano, sono vicini, ma non c’è una svolta: Quattro parole che in italiano hanno comune la s iniziale e che descrivono lo stato – altra “s” – dei negoziati tra Hamas e Israele con la mediazione del Qatar. Gli attori esterni si dicono ottimisti, invocano pazienza; il presidente americano, alla ricerca di consensi e voti, si fa fotografare rilassato, con un gelato in mano, mentre indica lunedì prossimo, ossia il 4 marzo, come data in cui ci sarà quasi sicuramente una breve pausa nell’assalto di Tel Aviv a Gaza e inizierà uno scambio ostaggi – prigionieri.
Al momento, purtroppo, c’è una sola cosa sicura: i palestinesi di Gaza, bambini, donne, uomini, continuano a morire (quasi 30mila dal 7 ottobre); continuano a morire i loro fratelli nella Cisgiordania occupata; migliaia di israeliani manifestano ogni giorno o quasi solo per chiedere il rilascio dei loro famigliari prigionieri dei militanti islamisti nella striscia, non per fermare le armi; le notizie raccontano di morte e distruzione nel nord d’Israele e in Libano dove ogni giorno che passa aumenta il rischio di un allargamento del conflitto. E il premier Netanyahu si è detto “sorpreso” quando Biden ha detto di sperare, di credere possibile, un cessate-il-fuoco entro l’inizio della prossima settimana. Ossia una settimana prima dell’inizio del mese del Ramadan, una delle feste più importanti del calendario islamico.
La partita è complessa. La realtà ancora di più. Gli interessi dei mediatori non necessariamente corrispondono a quelli dei due giocatori principali. Israele è un governo democraticamente eletto guidato da Netanyahu e la sua coalizione è da sempre contraria alla creazione di uno stato palestinese accanto a Israele; Hamas fu eletto solo nella striscia di Gaza ma oggi, rappresenta il legittimo desiderio dell’intero popolo palestinese – ossia anche quella parte che vive a Gerusalemme Est e in Cisgiordania – di avere uno stato.

Il governo palestinese siede a Ramallah, appunto, nella terra che va dalla città santa al fiume giordano, e ieri ha offerto le dimissioni al presidente Mahmoud Abbas perché venga formato un gabinetto tecnico capace di ricostruire Gaza e lavorare – un’idea di Biden – per far nascere uno stato palestinese indipendente accanto a Israele. E’ proprio questo che non vuole Netanyahu e che non vuole una maggioranza degli ebrei d’Israele.
Molti dei ministri e anche il premier farebbero a meno di negoziare con Hamas. Mettono in secondo piano la salvezza degli ostaggi. Vorrebbero andare avanti con la caccia, (legittima e comprensibile, agli organizzatori della orribile strage di ottobre nel sud di Israele ma vorrebbero anche cacciare tutti i palestinesi dalla striscia. E dopo, fosse possibile, dalla Cisgiordania per far posto alle colonie, gli insediamenti ebraici-israeliani che ormai controllano buona parte dei territori occupati. Sono soprattutto le pressioni della Casa Bianca e del mondo arabo a voler spingere Israele a fermare le armi durante il Ramadan. E soprattutto a non lanciare un attacco contro la città di Rafah, nel sud estremo di Gaza. La città e ormai una specie di enorme campo profughi creato per accogliere la popolazione che le forze armate israeliane hanno cacciato dal nord della striscia. In mezzo alle tendopoli e nella vasta rete di tunnel sotto di loro, si nascondono i leader di Hamas e parte importante dei combattenti. Una tregua, insistono a Tel Aviv, può essere al massimo una sosta, non lunga, della guerra. In profughi palestinesi dal nord verrebbero costretti a tornare ai loro villaggi e città d’origine dove, ammettono anche in Israele, le bombe hanno distrutto case e infrastrutture.
Tregua o no, la situazione resta esplosiva. Denunciando alcune parole provocatorie di esponenti dell’estrema destra israeliana, il ministro della difesa Gallant si è detto preoccupato. “C’è da parte di Iran, Hezbollah e Hamas un crescente interesse a trasformare il Ramadan nella seconda fase del 7 ottobre”, evitate parole e azioni sbagliate. Parole per mettere in guardia, per preparare nuove azioni militari contro i palestinesi a Gerusalemme e in Cisgiordania o per far capire alla Casa bianca che devono arrivare presto i miliardi di dollari e i massicci rifornimenti di armi – sofisticati e non – promessi dal Congresso?