Mea culpa dell’amministrazione Biden per la gestione del conflitto a Gaza; la campagna elettorale per la Casa Bianca potrebbe forzare la mano al presidente in carica. In un incontro a porte chiuse con i leader arabo-americani in Michigan, uno dei principali collaboratori di Biden in politica estera, Jon Finer, ha riconosciuto gli errori commessi affermando di non avere “alcuna fiducia” nella volontà del governo israeliano di compiere “passi significativi” verso la creazione di uno Stato palestinese. Lo riporta il New York Times, segnalando che si tratta di “uno dei segnali più netti di pentimento dell’Amministrazione” per la gestione della crisi, “un segno della crescente pressione democratica sul Presidente Biden”.
Il numero dei morti palestinesi a Gaza dal 7 ottobre si avvicina sempre più ai 30mila, per la larghissima maggioranza civili, molte donne, bambini, anziani. Il termine “genocidio” non è stato accolto dalla Corte Onu dell’Aia – come era stato richiesto dal Sudafrica – ma serpeggia nei corridoi delle Nazioni Unite, le cui agenzie – OMS, UNHCR, Unicef, World Food Program – da mesi denunciano una situazione umanitaria, alimentare e sanitaria impossibile, molto più che devastante per la popolazione palestinese nella Striscia sottoposta ai bombardamenti e ai combattimenti via terra fra esercito israeliano e miliziani di Hamas.
Ma il governo israeliano non mostra alcuna intenzione di allentare la presa. Il mantra del premier conservatore Benjamin Netanyahu è che la guerra si fermerà solo dopo la sconfitta di Hamas. È la risposta all’assalto efferato di Hamas del 7 ottobre in Israele che ha ucciso circa 1200 persone e ne ha tratte in ostaggio alcune centinaia – in parte liberati, in parte ormai morti, in parte ancora prigionieri a Gaza. La sopravvivenza politica di Netanyahu, che è al governo con diversi partiti ultra conservatori e apertamente contrari a uno Stato palestinese, dipende dalla continuazione della guerra.
La reazione della Casa Bianca dunque: mesi di moniti pubblici e privati a Israele, peraltro sempre più espliciti, perché eviti la strage. Due giorni fa, la critica pubblica più aperta, quando Biden ha detto che Israele è stata “eccessiva” nella sua reazione.
L’incontro di Jon Finer, vice consigliere per la sicurezza nazionale, con i leader arabo americani, è avvenuto in Michigan. “Siamo consci che abbiamo compiuto degli errori nella gestione di questa crisi dopo il 7 ottobre” ha detto secondo una registrazione dei colloqui ottenuta dal New York Times e verificata da fonti della Casa Bianca. “Abbiamo dato una impressione molto nociva per colpa di una rappresentazione pubblica totalmente inadeguata di quanto il presidente, l’amministrazione e questo paese tengano in conto la vita dei palestinesi. E francamente questo è successo fin dall’inizio”.
Finer ha promesso che si farà di meglio. Il New York Times commenta che questa è la prova delle aumentate pressioni del partito perché la Casa Bianca tenga una linea molto più ferma con Israele. Il segretario di Stato Antony Blinken si è recato cinque volte in un tour mediorientale dal 7 ottobre, senza ottenere nulla dall’alleato israeliano salvo un ok a pochi giorni di tregua con scambi di prigionieri palestinesi con ostaggi.
Questo è un anno elettorale. La guerra a Gaza è una parte dei problemi che Biden deve affrontare col suo stesso elettorato. La Casa Bianca fin qui non ha mai chiesto ufficialmente a Israele un cessate il fuoco, ha solo discusso di “tregue umanitarie”, ma all’interno del partito si chiede sempre di più che Washington dichiari apertamente che le armi devono tacere.
Molti giovani democratici, molti progressisti e molti afroamericani, vicini alla causa palestinese, sono furiosi – anche perché lo stesso Biden ha accettato la versione israeliana secondo cui il bilancio dei morti palestinesi, fornito dalle autorità di Gaza controllate da Hamas, potrebbe non essere attendibile (ma le immagini dei palazzi distrutti e degli sfollati ammassati che i reporter palestinesi continuano a inviare a rischio della loro stessa incolumità dovrebbero essere prova sufficiente). Dimostranti pro palestinesi sono sempre più frequenti ai comizi di Biden.
Il passo successivo per la Casa Bianca potrebbe essere proprio la richieste di un cessate il fuoco; una mossa che segnerebbe uno spartiacque rispetto agli ultimi decenni di sostegno almeno pubblicamente acritico delle politiche israeliane.
Il mese scorso in Virginia, un comizio sul diritto all’aborto di Biden è stato interrotto da manifestanti filopalestinesi. In seguito, Biden ha incontrato una quarantina degli invitati e ha detto che i manifestanti non sono nemici politici, la loro causa è “davvero importante”, riferiscono fonti presenti all’incontro.
La situazione in Michigan, Stato cruciale che ha una folta comunità arabo americana a Dearborn e altri sobborghi di Detroit, è un caso esemplare. Il sostegno per Biden nello Stato, dove vinse nel 2020, è in calo. Oltre a Jo Finer altri pezzi grossi dell’amministrazione fra cui Samantha Power, a capo dell’agenzia per lo Sviluppo Internazionale degli Stati Uniti, sono andati a Dearborn questa settimana per incontrare i notabili locali.
La settimana prima, ci era andata anche Julie Chávez Rodríguez, capo della campagna elettorale 2024. Aveva incontrato, riferisce il New York Times, anche la deputata americano palestinese Rashida Tlaib, una delle democratiche più vocali nella richiesta di un cessate il fuoco.
Invece il sindaco di Dearborn, Abdullah Hammoud, e altri funzionari locali, non hanno voluto incontrare Chávez Rodríguez. Hammoud ha emesso un netto comunicato dichiarando che voleva incontrare i politici e non gli strateghi elettorali. La Casa Bianca ha risposto con i colloqui di questa settimana.