“Un governo di coalizione più centrista rispetterebbe lo stato di diritto, ma la sua capacità di promuovere la pace sarà tutt’altro che garantita”. Yossi Mekelberg, professore associato al Royal Institute of International Affairs di Londra, è nato in Israele, ha studiato all’Università di Tel Aviv ed è solo uno dei molti analisti
che gettano acqua sul fuoco della speranza generato dal caos politico e sociale in Israele.
L’altro giorno il premier Netanyahu che oggi ha parlato con il presidente americano – contestato ancora prima dell’assalto di Hamas del 7 ottobre da un movimento di popolo massiccio per aver tentato di modificare-distruggere le regole della democrazia israeliana – ha respinto le richieste di Biden ed escluso la possibile creazione di uno stato palestinese indipendente accanto a Israele. Israele, ha sostenuto, deve mantenere il controllo militare del territorio che va dal Mediterraneo al fiume Giordano. Parole chiare, quasi uno schiaffo in faccia a Biden, certamente gradite ai suoi ministri più estremisti e a quella parte della popolazione israeliana a cui non è mai piaciuta l’idea di uno stato arabo indipendente alle sue porte.
Nelle ultime settimane va crescendo il dissenso interno in Israele. Manifestazioni popolari (quasi tutte sollecitando sforzi maggiori per fare tornare a casa – vivi o morti – gli ostaggi nelle mani di Hamas), richieste per elezioni anticipate, la cacciata di Netanyahu e la ripresa dei processi giudiziari intentati contro di lui per le accuse di corruzione. Sul quotidiano di opposizione Ha’aretz anche l’ex premier Ehud Barak ha sollecitato elezioni al più presto per poi andare avanti sulle proposte americane sul “dopo guerra”.
“Due mesi fa – ha ricordato – gli Stati Uniti hanno presentato a Israele una proposta che soddisfa gli interessi comuni di entrambi i paesi, e che è ancora sul tavolo, come segue: dopo che le capacità di Hamas saranno eliminate, una forza inter-araba composta da membri del “asse di stabilità” sarà istituito per amministrare la Striscia per un periodo limitato. Durante questo periodo, Gaza tornerà sotto il controllo di un’Autorità Palestinese “rivitalizzata”, il cui diritto di governare il territorio è riconosciuto a livello internazionale, soggetto ad accordi di sicurezza accettabili per Israele”. Parole chiare, o quasi. L’altro giorno Netanyahu aveva detto che gli “accordi di sicurezza accettabili per Israele” sarebbero tali da impedire alla Palestina di essere veramente uno stato indipendente. Altri politici nel gabinetto di guerra restano vaghi o ambigui rispetto alla questione palestinese sopratutto quando si tratta di usare il termine Stato. Si dicono pronti a trovare una soluzione ma non osano parlare di tempi e condizioni.

Joel Singer era il consigliere legale del ministero degli Esteri israeliano sotto il governo Rabin-Peres: negoziò l’accordo di mutuo riconoscimento Israele-OLP, l’accordo di Oslo e i relativi accordi di attuazione con l’OLP (1993-96). E’, probabilmente, uno dei massimi conoscitori dei tavoli negoziali mediorientali che ha descritto parlando di ambiguità costruttiva.
“Nei negoziati di pace in Medio Oriente ci sono quasi sempre tre fasi. In primo luogo, le parti risolvono tutte le questioni incluse nei testi proposti in un linguaggio diverso che dice essenzialmente la stessa cosa. Poi, risolvano molte questioni sostanziali su cui originariamente avevano posizioni diverse ma su cui possono scendere a compromessi concordando un testo che significa la stessa cosa per entrambi. Infine, per superare alcune questioni rimanenti che non possono essere risolte, le parti talvolta concordano di adottare un testo così ambiguo che entrambi possono accettarlo pur continuando, di fatto, a mantenere il loro impegno originario: posizioni contraddittorie”.
Sempre nel regno delle ambiguità, più o meno costruttive, Michael Milshtein, un colonnello delle riserve dell’IDF, ex capo del dipartimento degli affari palestinesi nell’intelligence militare che oggi dirige un centro studi all’Università di Tel Aviv racconta come molti politici israeliani stiano studiando formule per il dopo guerra, senza mai usare la parola “stato palestinese”.
“Una possibile soluzione sta nella formazione di un’amministrazione centrale in cui sarebbero integrati i rappresentanti locali delle leadership sociali tradizionali, specialmente quelli che si identificano con la moderna attività politica e pubblica. Ad esempio, sindaci e consigli locali che non sono identificati con Hamas, figure del mondo accademico, capi dei sindacati e personale di rango di Fatah. Ciò comporterebbe anche una stretta affinità – simbolica e pratica – tra l’amministrazione appena creata e l’Autorità palestinese con sede a Ramallah, che nella sua forma attuale è troppo debole per controllare Gaza.

“Questa non sarebbe – ammette – la prima esperienza di Israele in questo senso. Durante i mesi successivi alla guerra del Sinai (novembre 1956-marzo 1957), quando Israele governò la Striscia di Gaza – un periodo descritto dal diplomatico e politico Abba Eban come “la prima esperienza coloniale di Israele” – fu formato un comitato consultivo composto da figure pubbliche di spicco di tutta Gaza, in base al quale operavano i consigli municipali. Gli enti locali supervisionarono una parte considerevole degli affari civili, insieme al profondo coinvolgimento israeliano nella polizia, nella magistratura e nel sistema educativo, da cui è stato eliminato il contenuto anti-israeliano.
“Non c’è dubbio che gli organi amministrativi locali affronterebbero gravi sfide, in particolare sotto forma di sospetti da parte dei violenti attacchi pubblici di quanto resterebbe di Hamas. Se l’organismo centrale dovesse ricevere un ampio aiuto esterno, potrebbe ottenere la fiducia del pubblico di Gaza e operare a fianco del controllo di sicurezza israeliano nella Striscia. Nel caso in cui il governo locale dovesse mostrare un’autentica capacità di governo, in futuro sarebbe possibile prendere in considerazione il trasferimento di poteri alla nuova amministrazione in alcune delle regioni della Striscia di Gaza, oltre al confine tra Gaza e Sinai, dove sarà necessario un regime rigoroso.
“Di tutte le alternative cupe che Israele deve affrontare oggi – sostiene – questa è la meno pessimista. Forse con l’aiuto di abbondanti dosi di ottimismo e di un profondo cambiamento politico e culturale tra i palestinesi, questa opzione sarà in grado di servire in futuro come base per la regolarizzazione storica tra le due società sanguinanti”.
Israele – ammette – non prende nemmeno in considerazione l’ipotesi di affidare ad altri – arabi, europei, americani – i controlli di sicurezza nella striscia.