Ellis Island, un nome che risuona nella psiche americana, soprattutto fra i discendenti dei migranti. Dall’isoletta nella baia di New York con il suo enorme centro di accoglienza e screening passarono oltre 12 milioni di immigrati nei 62 anni in cui restò aperto, dal primo gennaio 1892 al 12 novembre 1954. Italiani certo, ma anche irlandesi, tedeschi, polacchi, rifugiati ebrei di tutte le nazionalità e tanti altri venuti a popolare le Americhe alla ricerca del sogno; la maggioranza non tornò mai in patria.
Questi milioni di nuovi americani avevano nomi ricchi di lettere e sillabe difficili da pronunciare in inglese. Ma secondo uno studio del 2018 rilanciato in questi giorni, non è affatto vero che i frettolosi funzionari di Ellis Island avrebbero storpiato i cognomi dei migranti. Un mito, forse nato da una sequenza de Il padrino di Francis Ford Coppola.
Lo ricorda un post di Alex Tabarrok sul blog Marginal Revolution, citando uno studio di Rosemary Meszaros e Katherine Pennavaria, che scrivevano: “Contrariamente a quanto si crede comunemente, nessun cognome di immigrati è stato modificato, abbreviato, scritto male o “registrato in modo errato” a Ellis Island o in qualsiasi altro porto di ingresso americano”.
“Una domanda che emerge sempre negli studi genealogici è, perché i cognomi di molte famiglie sono diversi da quelli (presunti) originali? Spesso si sente dire che furono ‘cambiati a Ellis Island’, per insipienza o per cattiveria dei funzionari”. Questo non è plausibile secondo le autrici perché “nessun nome veniva scritto a Ellis Island; i nomi dei passeggeri in arrivo erano già scritti sulle liste degli imbarcati sulle navi, richieste dal governo federale”.
In realtà, sostiene lo studio, furono gli stessi immigrati o i loro discendenti ad anglicizzare i loro nomi, in genere durante l’iter di richiesta di cittadinanza. Lo studio inoltre rivela che – di nuovo, contrariamente al mito – questi immigrati non venivano trattati come bestiame sulle navi che li portavano in America, ma come clienti paganti.

Le compagnie di navigazione operavano come le odierne compagnie aeree, vendendo i biglietti a chi poteva permetterseli. Rischiavano multe in caso di discrepanza tra i nomi riportati sul manifesto e quelli registrati al momento dello sbarco, il che costituiva un forte incentivo a garantire l’accuratezza.
Gli autori dello studio sottolineano inoltre che è comunque improbabile che i funzionari portuali, spesso della stessa etnia degli immigrati e assunti per le loro competenze linguistiche, costringessero gli immigrati ad anglicizzare i loro nomi o non fossero in grado di scriverli correttamente.
Gli Stati Uniti all’epoca – e fino al 1921 – accoglievano i lavoratori. Chi arrivava a Ellis Island almeno nei primi due decenni aveva ottime probabilità di entrare nel paese, e solo quelli che viaggiavano nelle stive in terza classe venivano sottoposti a un processo di selezione (secondo la Fondazione Ellis Island, i passeggeri di prima o seconda classe venivano accolti da un rapido controllo sulla nave, in base al principio che “chi poteva permettersi di comprare un biglietto di prima o seconda classe aveva meno probabilità di essere un peso per il sistema americano per motivo medici o legali”.)
Man mano che la migrazione aumentava anche le regole cambiavano. Nel 1875 fu proibito l’ingresso alle prostitute e agli ex detenuti. Nel 1882, ai condannati per motivi politici, “ai pazzi, agli idioti” e alle persone a rischio di essere un peso per lo Stato. Nel 1903 partì lo stop ai poligami e ai politici radicali, un segno del timore per i bolscevichi e gli anarchici (di cui fecero le spese Sacco e Vanzetti). Ma con tutto ciò, nell’isola, che oggi è un museo e un memoriale all’immigrazione di massa che formò la spina dorsale degli Stati Uniti, nemmeno un cognome sarebbe stato cambiato per colpa della pochezza dei funzionari.
