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January 17, 2024
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Il ciclone Trump invade tutti gli spazi mediatici: il dilemma dei giornalisti

Come evitare che ogni notizia si trasformi in formidabile propaganda?

Angelo FigorillibyAngelo Figorilli

Flags in support of Republican candidate for President, Former US President Donald Trump / Ansa/ EPA/AMANDA SABGA

Time: 3 mins read

Ora è il momento che ci affolliamo tutti a dire la nostra su Trump che ritorna. L’avevano detto i sondaggi, l’aveva detto Biden alzando l’asticella sulla democrazia, l’hanno detto le gelide primarie dell’Iowa, lo diranno anche le prossime salvo imprevisti per ora imprevedibili.

E tutto questo ha un risultato oggettivo: Trump troneggia dappertutto, dal New York Times al Des Moines Register, combattivo giornale locale dell’Iowa, passando per i nostri (italiani intendo) tg e quotidiani. Non solo. Se aggiungiamo foto e titoli su presenti e futuri processi del nostro, il risultato è chiaro: il faccione torvo di Donald ci accompagnerà permanentemente in servizio effettivo da qui fino a novembre. Come minimo.

E voi direte, giusto, Trump fa notizia, almeno metà America è con lui, non possiamo fare altro che raccontarlo. Però. A allontanare giusto un po’ il naso dalle prime pagine o dalla televisione ci accorgeremmo che c’è un problema tuttora irrisolto nella comunicazione del fenomeno Trump; quello per il quale siamo consapevoli che l’ex presidente trasforma scientificamente ogni occasione, anche la più palesemente impresentabile, in una macchina formidabile di propaganda.

Ricordo l’imbarazzo della giovane responsabile del Washington Post per i cento giorni della sua presidenza che alla domanda come vi regolate quando Trump dice evidenti falsità mi rispose “siamo stressati perché dobbiamo fare il doppio del lavoro, riferire le cose che dice e aggiungere che sono false. E tutto questo a ritmi inverosimili perché lui twitta decine di volte al giorno, e ora sono I tweet del Presidente!”

Ecco, le avvisaglie di questa nuova vecchia stagione ci sono tutte. Prendiamo proprio il caso dei caucus in Iowa. Con il minimo sforzo Trump è riuscito a dire che Haley è inadeguata, De Santis è un ingrato prima del voto, dopo la vittoria ha detto che sono bravi tutti e due e i media dietro, a ripetere sia l’una che l’altra cosa mentre lui accumulava titoli e minuti di tg in una corsa alle primarie che dalla prima tappa sembra già decisa. Ci potete giurare che lui terrà in vita gli avversari fino a quando potrà, perché così produrrà titoli il più a lungo possibile; contando anche sul fatto che ogni volta che leggiamo “Trump stravince” l’effetto pervasivo può farci scambiare le primarie repubblicane per quelle vere di novembre.

Questo per noi osservatori da lontano vale quello che vale ma su una opinione pubblica stressata e polarizzata come quella americana può invece essere decisivo nell’esaltare o deprimere gli elettori. Tanto più che di fronte a questa chiarissima strategia comunicativa assistiamo per ora alla afasia dello staff del presidente Biden (già Obama qualche giorno fa aveva raccomandato di spostare i migliori dalla Casa Bianca alla campagna elettorale, per ora solo John Kerry ha cambiato ufficio).

Esempio pratico sempre l’Iowa. I democratici hanno più o meno lo stesso problema dei repubblicani, le loro primarie sono quasi una formalità, ci sono due candidati oltre a Biden e la vittoria dell’attuale presidente appare scontata. E però in Iowa i Dem fanno la scelta opposta a quella di Trump. Niente riunioni, comizi solo il silenzioso voto per posta. Vincerà Biden sicuro ma niente titoli, niente prime time sui tg, insomma niente palcoscenico. C’è per ora solo un breve appello sui social del Presidente che dice “mi fanno sorridere questi repubblicani (Haley e De Santis) che cercano di convincere che saranno capaci di battere Trump, in realtà solo uno l’ha battuto (lui n.d.r.) e anche questa volta lo farò, per il bene del paese”. Fine della comunicazione. Nervi saldi ma anche calma piatta. Un po’ poco verrebbe da dire per fare titolo.

È evidente che non sarà così fino alla fine, che anche i Dem scateneranno le loro tempeste, potete giurare anche su questo, ma certo ci aspetta una stagione in cui provare a raccontare il ciclone Trump senza cadere nel effetto dell’invincibile sarà difficilissimo. Per non parlare poi delle cronache del nuovo Presidente, se davvero dovesse ritornare alla Casa Bianca. Ma questa sarà ancora un’altra storia, prima c’è da incrociare tutte le dita.

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Angelo Figorilli

Angelo Figorilli

Ha lavorato per anni in Rai come inviato. Ha viaggiato un po’ in giro, in Afghanistan e Iraq per le guerre, in Francia per le rivolte nelle banlieues, in America per Obama e per Trump. È stato anche molto in redazione davanti al computer, fino a dirigere gli esteri del Tg2. Ha scritto i libri “il cane Patàn e altre storie” “Banlieues i giorni di Parigi” e “Lettere che non sapevano dove andare”. Nell’ultimo anno ha realizzato con Francesco Paolucci e Maurizio Maggiani il documentario “L’uomo più buono del mondo - la leggenda di Carlo Tresca”. Vive tra Roma quando deve, Sulmona, dove è nato, e Capalbio, perché lì trova finalmente il tempo di leggere e qualche volta di scrivere, con calma

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