In quasi 76 anni di esistenza, Israele ha affrontato innumerevoli crisi. L’attuale non è la più difficile da risolvere sul piano militare, ma la più complessa sotto il profilo dello sbocco politico. Il quadro politico interno era inquinato da anni di scelte divisive di Netanyahu, ben prima delle immonde atrocità compiute da Hamas e abitanti di Gaza il 7 ottobre e della feroce risposta di IDF, Israel Defence Forces. Pesano ora anche le falle del sistema di sicurezza a ridosso di Gaza e gli atteggiamenti anti-israeliani di larghe fette di accademici e intellettuali in giro per il mondo sommati ai tradizionali conati antisemiti. La stessa denuncia sudafricana di genocidio ha acuito la consapevolezza di quanto sarà difficile dare uno sbocco politico sensato e condiviso internazionalmente alla crisi aperta da Hamas con l’intento di sparigliare e scaraventare il nemico in una difficoltà esistenziale.
Quello sbocco va trovato in tempo utile e, per israeliani e palestinesi, sarà meglio identificarlo da sé piuttosto che lasciarselo imporre da attori esterni. Nel primo caso saranno i loro interessi ad essere regolati e possibilmente soddisfatti; nel secondo, le parti in conflitto dovranno soddisfare anche interessi (appetiti?) di chi collaborerà a mettere ordine nella regione. Tuttavia, l’enorme squilibrio di forza sul terreno a favore di Israele consiglia una pressione esterna (in particolare degli Stati Uniti), sempre che sia equa e consideri lo squilibrio della forza schierata.
Ci sono diversi elementi che rendono di difficile raggiungimento il necessario sbocco. Se ne ricordano, tra i più recenti: il nazionalismo esclusivista esercitato dai rispettivi leader (destra e religiosi in Israele; Hamas a Gaza, ma anche tra molti palestinesi di Cisgiordania e diaspora), l’estremismo degli atti (le colonizzazioni a raffica e i muri di frazionamento di Israele, gli attacchi armati di Hamas sino agli eccidi del 7 ottobre), la crudeltà e l’efferatezza dello scontro che stanno depositando ulteriori odi e rancori.
Sul che fare per garantire che il processo di pacificazione sia effettivo soccorrono tre principi ampiamente condivisibili e un precedente storico di controversa interpretazione. Il primo principio è che la guerra si fa in vista del tipo di pace che si intende raggiungere: qui Israele è in difetto, perché mentre ha indicato con chiarezza l’obiettivo bellico (la cancellazione della minaccia Hamas) non altrettanto ha fatto per l’obiettivo politico, ovvero a quale pace aspiri. Ma sanno persino le pietre del Negev che la crisi attuale nasce anche dalle scelte estremiste del governo Netanyahu, complici del progressivo scivolamento palestinese dal laicismo moderato di Oslo all’estremismo, anche religioso, odierno, anticamera di assassinio e odio.

Il secondo principio è che la pace si fa tra nemici, dal che deriva che si tratta di un processo lungo tortuoso e difficile, ma con un risultato – la pacificazione – sempre possibile. Il terzo principio è che la pace si costruisce durante la guerra. Nella contemporaneità appare calzante il caso USA-Vietnam: i negoziati di pace iniziarono a Parigi nel maggio 1968, ma la pace arrivò solo nel gennaio 1973; la tentennante firma vietnamita fu apposta in seguito agli effetti di dieci giorni di terrificanti e incessanti bombardamenti statunitensi che causarono tra i civili intorno ai 2.000 morti e 1500 feriti.
Per quanto riguarda il precedente, Israele sta puntando alla debellatio del regime Hamas, con un’operazione identica a quella alleata verso il III Reich. Dopo la cancellazione dello stato, il territorio tedesco attraversò quattro ulteriori fasi nel quinquennio successivo: divisione in due, governo straniero, ricostituzione dello stato nazionale nel 1949 (settembre per la Bundesrepublik, BRD; ottobre per la Deutsche Demokratische Republik, DDR), adesione a un accordo regionale economico con implicazioni politiche (Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio, CECA, nel 1951, per la BRD; Comecon, Consiglio di mutua assistenza economica, per la DDR, 1949). Gaza – riunita a Cisgiordania e Gerusalemme est, come la DDR si è riunita alla Repubblica Federale – potrebbe anch’essa percorrere le cinque fasi.
Le differenze tra la natura del rapporto franco-tedesco e quella del rapporto israelo-palestinese sono enormi. Pesa nella vicenda mediorientale il fanatismo e l’odio di religiosi ed estremisti, assenti – come si evince dalla dichiarazione di Robert Schuman del 9 maggio 1950 – nel ceto politico che in Francia e BRD generò la CECA; Il Reich era uno stato, e uno Stato i palestinesi non lo erano e non lo sono. Per questo, la debellatio palestinese non si è mai data in termini giuridici, ma sì in termini sociali e politici, vista la situazione palestinese di dispersione, repressione e povertà, alla quale si aggiungono le enormi sofferenze di queste settimane.
Quanto alla divisione in due del territorio abitato dai palestinesi, questa opera per scelta di Hamas, essendosi sommata alla frammentazione territoriale voluta da Israele. Per l’unificazione nello stato palestinese, è stato evocato il concetto di “stato nascente”, riaffermato dall’amministrazione Biden con il proposito che due stati – Israele e Palestina – convivano nei territori contesi secondo accordi realistici che includano anche la restituzione di territori illecitamente occupati da Israele.
Resta da costruire la tappa che, per chi scrive, è indispensabile al successo del modello: l’alleanza economica regionale israelo-palestinese che, in prospettiva, potrebbe includere Egitto e Giordania, associandosi poi all’Unione Europea. La stessa UE, premio Nobel per la pace 2012 per aver pacificato l’Europa centro-occidentale, potrebbe essere garante del processo, con mandato delle Nazioni Unite e coinvolgimento della Lega Araba. Francia e Germania misero insieme carbone e acciaio, come pietra fondante della futura costruzione dell’unità europea. È un progetto politico, non un’utopia, lavorare perché qualcosa di simile venga avviato in Medio Oriente.