Nelle scorse settimane, migliaia di persone sono scese in piazza per difendere i diritti del popolo palestinese e di quello israeliano, ma la violenza del conflitto nella Striscia di Gaza si è estesa fino al cibo. C’è chi pensa che la cucina israeliana sia il risultato della diaspora, per cui migliaia di persone, costrette a vivere in diversi posti, una volta ricongiunte hanno fuso diverse tradizioni. Dall’altra parte, i sostenitori pro-Palestina credono che sia solo l’ennesimo caso di appropriazione culturale.
Alcuni ristoranti palestinesi hanno riferito di essere stati inondati di cattive recensioni online con una sola stella. Mentre quelli israeliani sono stati segnalati sui social media perché “continuano a colonizzare e appropriarsi dei prodotti e delle tradizioni palestinesi spacciandoli per propri”, si legge in un post di Philly Palestine Coalition, uno dei gruppi che partecipa e promuove il movimento BDS (“Boycott, Divestment, Sanctions”), storicamente contro Israele.
A questa campagna di boicotaggio hanno partecipato anche novecento cuochi, cuoche, agricoltori e operatori del settore alimentare americano che hanno firmato una petizione, promossa da Hospitality for Humanity, per chiudere diverse aziende con sede in Israele, impedire che vengano organizzati eventi culinari israeliani e porre fine ai sostegni inviati dagli Stati Uniti.
Piatti tradizionali sono quindi diventati armi della guerra. Ma non è la prima volta. Proprio l’hummus, una pietanza tipica dell’area mediorientale, è stato protagonista di una controversia legale fra Libano e Israele quando, nel 2009, il primo chiese all’Unione Europea che gli venisse assegnato il marchio DOP.