A parte i ciechi nella mente e gli osservatori a piè di lista della disinformatja russa, chiunque del mestiere negli scorsi mesi sia stato richiesto di ipotesi sulla conclusione del conflitto in Ucraina, si è soffermato sull’unica eventualità logica: che Putin fosse rimosso da un colpo di stato interno. Era così evidente la follia della feroce guerra di aggressione al popolo cugino, persa già la prima settimana d’invasione, che da subito si iniziò a scrutare dentro la matrioska russa, cercando quale dei pupazzi ivi contenuti potesse rivelarsi fautore dell’auspicato quanto prevedibile collasso del regime putiniano.
Contro la fattibilità dell’evento rimozione, però, militavano (e per certi versi militano) alcune constatazioni obiettive.
La prima è che, da una Russia data per battuta, sia sempre venuto un rilancio. È successo nell’ottocento con Napoleone e nel novecento con l’ex socio in affari territoriali Hitler. Gli accadimenti della Prima guerra mondiale non costituiscono eccezione: la Russia si ritirò dal conflitto per ragioni interne, non perché fosse stata sconfitta. I bolscevichi ebbero buon gioco ad approfittarne, e l’accordo di pace di Brest-Litovsk del 3 marzo 1918 segnò il trionfo della linea di “salvezza proletaria” dello stato nascente, non la sconfitta russa. Significativo che oggi, sia il mercenario insorto Prigozhin che il capo del Cremlino Putin facciano riferimento a quella fase della vicenda russa per reclamare la salvezza della patria che essi stessi stanno picconando.
Duplice l’effetto interno del mito dell’invincibilità: patriottismo e paura di schierarsi. Da un lato la fede nella vittoria finale spinge al campo di battaglia, dall’altro il terrore del formidabile apparato storico di repressione e assassinio del Cremlino scoraggia dall’insorgere.
La seconda constatazione prende spunto dal celebrato calembour di Winston Churchill, del 1939, sulla Russia come “a riddle wrapped in a mystery inside an enigma” (un indovinello avvolto in un mistero dentro un enigma). L’impasto di quell’evoluzione millenaria include il sospetto, la sfiducia, il senso di inimicizia verso lo “straniero”, fa dell’inganno e della segretezza gli strumenti di lavoro privilegiati. Propaganda e disinformazione ne sono le manifestazioni, così come la corruzione e la costituzione di quinte colonne nei paesi “nemici”. Il risultato dell’intossicazione delle opinioni pubbliche estere che deriva da quella struttura di potere (si pensi ai movimenti cosiddetti “pacifisti”), falsa la percezione degli oppositori interni alla Russia, spingendoli a ritenere di non poter contare sulla solidarietà e l’appoggio politico delle democrazie, o – persino peggio – di avere in esse nemici interessati alla distruzione della Russia (concetto ripetuto da Putin nel breve comunicato di stamattina).

La terza constatazione riguarda il controllo del dittatore russo sui servizi segreti, della cui burocrazia fu emanazione. Non occorre fantasia per ritenere che quel controllo sia particolarmente accurato sugli alti gradi delle Forze armate, nonostante al vertice Putin abbia messo un amico di lunga data, il sessantaseienne Sergej Shoigu. Al tempo stesso, negli undici anni passati alla Difesa, l’ex ministro per le Situazioni di emergenza – privo di ogni addestramento militare – ha promosso la qualità anche tecnologica delle Forze Armate, catapultandole in compiti decisionali dello stato. Negli ultimi mesi si è documentato un ribaltamento delle posizioni di vertice degli apparati: nella definizione delle politiche e nei rapporti esterni, sono scesi i direttori di Svr e Fsb, è salito Shoigu. Salvo annotare che da una settimana gira in rete un filmato che mostra Putin dare platealmente le spalle a Shoigu, mentre decora dei soldati all’ospedale militare centrale Vishnevsky di Mosca.
Dal che la domanda: e chi lo farebbe quindi il golpe se i servizi sono i fedelissimi della prima ora implicati fin oltre il collo nella cleptocrazia putinista, e le Forze Armate, favorite dal pupillo Shoigu, sono ascese a posizioni di potere e arricchimento personale alle quali non si capisce perché dovrebbero rinunciare?
Eppure le richiamate constatazioni, alla luce di quanto sta accadendo a Mosca in queste ore, fanno concludere che al torpido burattinaio del Cremlino si siano impicciati i fili con i quali ha manovrato sinora le forze sulle quali sorregge il potere. La guerra, che ha favorito l’ascesa dei capi militari e di Prigozhin, risulta la maggiore responsabile dell’ingarbugliata situazione nella quale si trova il sanguinario Volodya. Mai, dalla rivolta decabrista del 1825, i militari russi avevano mostrato di ambire a un ruolo dirigente. Dall’insurrezione di stanotte, il Cremlino è schiacciato nella tenaglia Prighozin-Shoigu, due suoi amici personali promossi a uomini che decidono il destino russo. Privarsi dell’uno contro l’altro gli è quasi impossibile: cosa ne sarebbe, senza i mercenari Wagner, delle ambizioni imperiali in Medio Oriente e Africa? Ma se così è, come rilanciare il rapporto con le Forze Armate? E con i servizi come metterla?

Si rilassi Putin: non sarà lui a decidere, ma i rapporti sul campo, a cominciare dal comportamento dei militari regolari. Abbracceranno o no l’azzardo Wagner? Sembra che in tanti, in queste ore, a Rostov sul Don, nodo strategico per il Caucaso, stiano facendo questa scelta, nonostante le minacce di Putin nei poco più di 3 minuti del discorso alla nazione pronunciato a metà mattina moscovita.
Il dittatore ha allevato in grembo una società di warfare dove non sarà il capo pavido e incapace a decidere un futuro che, a questo punto, non è in grado di scegliere e che può solo subire.
Dovrebbe fare un gesto che piacerebbe ai russi: andare in prima linea, dove muoiono senza ragione centinaia di migliaia di ragazzi russi. E combattere con i suoi. Non lo farà, il che potrà spingere settori delle Forze Armate a rivoltarglisi contro, passando con Prigozhin che è certamente quanto lui una carogna, ma almeno è in prima linea, come fa ogni capo meritevole di rispetto e fedeltà. Furbescamente, marciando contro Shoigu (o Putin?), il fondatore e capo di Wagner ha tdetto che la guerra è figlia della cricca di corrotti affaristi e guerrafondai che circonda Putin, definendolo di fatto raggirabile e labile, se non complice. Ha aggiunto che i successi ottenuti al fronte sono di Wagner, chiamata a salvare lo stato dalla disfatta. Un comizio: i Cesare, i Napoleone, tanti imperatori romani, cominciarono varcando il loro rubicone.