“La mia vita inconcludente e inutile” ha scritto su un bloc-notes l’ultimo studente che si è suicidato in Italia. Aveva 29 anni, era iscritto alla facoltà di medicina e viveva a Chieti.
C’è una strage silenziosa di cui si fa fatica a parlare, ci sono urla disperate silenziose che si evita di ascoltare, degli studenti, spesso universitari, che non reggono il peso di aspettative familiari e sociali eccessivi, dei ritmi di studio pressanti e iniziano a mentire fino a quando non è più possibile tornare indietro e l’ultima, estrema soluzione appare loro quella del suicidio, piuttosto che la confessione di una scomoda verità.
Negli ultimi tre anni, nel nostro paese, dieci studenti si sono tolti la vita. Gli ultimi dati Istat, non aggiornati perché risalgono al 2020, rivelano che in Italia ogni anno ci sono circa quattromila morti per suicidio sopra i quindici anni. I suicidi nella fascia di età tra quindici e trentaquattro anni sono circa cinquecento, di questi circa duecento tra gli under ventiquattro, in buona percentuale, appunto, studenti universitari. Il 33% di loro soffre di ansia, il 27% di depressione. Nelle facoltà più competitive la situazione è più grave: fra gli studenti di medicina, per esempio, l’incidenza della depressione è superiore da 2 a 5 volte rispetto alla media. Per questo sempre più atenei stanno aprendo servizi di counseling e sportelli psicologici.
Abbiamo intervistato al riguardo la Professoressa Elena Vivaldi, docente di diritto costituzionale alla Scuola Universitaria Superiore Sant’Anna di Pisa e delegata alle iniziative per persone diversamente abili e soggetti fragili.
Il vostro ateneo è uno dei pochi in Italia ad aver attivato misure di sostegno psicologico. Ce ne parla?
Mi occupo di questo dal 2019, ma già prima il nostro istituto aveva una convenzione con la Asl territoriale, per cui gli psicologi venivano in sede per incontrare i ragazzi.
La nostra Scuola ha diverse strutture, collegi dove gli studenti vivono e con la pandemia ci siamo trovati a dover rafforzare questo servizio. Per tutelare maggiormente la loro privacy abbiamo cercato delle strutture dedicate, lontane dalla sede centrale, dove si svolge la maggior parte delle attività. Non più un luogo casuale quindi, ma scelto per la fruibilità e la riservatezza.
A gennaio 2020 abbiamo individuato un uomo e una donna in grado di parlare oltre all’italiano, anche inglese, francese e tedesco, a cui i ragazzi si possono rivolgere attraverso un indirizzo mail diretto. Gli incontri avvengono all’esterno dei canali ufficiali in completo anonimato. Gli psicologi ci forniscono delle relazioni solo con un codice identificativo.
La nostra Rettrice ha puntato molto sulla formazione dell’allievo: la crescita deve avvenire non solo da un punto di vista culturale, ma cognitivo, emotivo e relazionale. Il percorso che abbiamo strutturato è breve, sei incontri da 50/60 minuti, che possono essere fruiti all’interno di un anno e su richiesta essere ripetuti nelle successive annualità.

Quanti sono i giovani che si rivolgono al vostro presidio per una consulenza?
Circa 45 studenti l’anno. Non tutti finiscono il percorso, alcuni si fermano dopo il primo incontro, altri proseguono senza terminarlo. Un numero più o meno eguale in entrambi i sessi.
Ci può tracciare un profilo? Chi sono?
Prevalentemente giovani di nazionalità italiana, che arrivano per la prima volta in ateneo, hanno fra i 18 e i 19 anni, e subiscono il distacco dal contesto familiare.
Dal 2021 il servizio è rivolto anche ai dottorandi, che sentono il disagio della precarietà della professione, vivono una fase di incertezza della vita. La loro età varia dai 24 ai 26 anni, e sono per lo più stranieri: indiani, pakistani, etiopi polacchi e russi.
Quali sono i disagi che avete principalmente osservato?
Dalle relazioni che ci vengono fornite dagli psicologi emerge che uno dei disturbi più frequenti è quello alimentare e a questo abbiamo dedicato una serie di seminari fruibili pure on line.
Spesso gli studenti universitari accusano un’eccessiva pressione e sentono la paura di fallire, secondo voi è possibile intervenire su questi stati emotivi?
Secondo noi è molto importante parlarne: la paura di fallire è un sentimento normale, condiviso da tutti, in passato poteva rappresentare un tabù, adesso non deve esserlo più.
Nel vostro Istituto si sono mai verificati eventi a rischio sui quali avete dovuto intervenire d’urgenza?
Non ci risultano almeno dal 2019 casi di tentato suicidio, solo qualche allievo che ha avuto attacchi di panico, soprattutto nella fase più dura della pandemia, durante le quarantene.
Ci sono delle attività che possono essere messe in campo come prevenzione “primaria”?
Abbiamo attivato un ciclo di seminari chiamato Health@School : nelle università di eccellenza come la nostra sono molti gli impegni a cui i ragazzi devono far fronte e dobbiamo fargli capire che può essere normale avere delle fragilità.
Avete progetti futuri per contrastare questa situazione che sta assumendo risvolti sempre più drammatici?
C’è una serie di iniziative a livello più ampio che stiamo implementando come il centro di ricerca Health Science coordinato dal professor Michele Emdin, che cerca di promuovere uno stile di vita corretto, mettendo al centro la salute. All’interno della nostra realtà abbiamo un’attenzione sempre crescente alla salute psicofisica di tutte le componenti della scuola, facendo parte del gruppo della Crui (conferenza rettori università italiane) sul counseling psicologico ho potuto osservare che negli atenei dove sono stati istituiti presidi psicologici, ci sono competenze per far fronte ai disagi interni. Si stanno anche delineando per la prima volta, attraverso un gruppo di lavoro, delle specifiche linee guida.