Il 52% incassato da Erdoğan domenica, in occasione del confronto decisivo con l’avversario Kemal Kılıçdaroğlu, è stato letto da alcuni commentatori come un segnale di debolezza, da parte del riconfermato presidente. Si tratta di giudizio poco meditato. L’uomo di Ankara esce dal voto popolare, rafforzato come non mai. Lo dicono alcuni incontestabili fatti.
Il voto popolare ha messo ben quattro punti tra i contendenti. Sono sufficienti a togliere all’opposizione la capacità di contrastare il presidente con un autorevole governo ombra, tanto più che i numeri maggioritari ottenuti dalla coalizione di Erdoğan nel nuovo parlamento assicurano alla legislatura di salpare a vele spiegate.
La deriva nazionalista e antimmigratoria, manifestata da Kılıçdaroğlu nei recenti comizi elettorali, non solo ha stupito chi lo considerava un sincero socialdemocratico, ma ha evidenziato la pericolosa contiguità politica e morale dei due contendenti. A guadagnarne Erdoğan, perché più coerente e quindi affidabile per la vasta platea dei votanti non ideologizzati.
Aver battuto le opposizioni nonostante la mole di errori e spericolatezze collezionati in politica interna e internazionale negli ultimi anni (per un elenco sommario: alta inflazione; discriminazione anti curda; inadeguatezze ed errori nella risposta al recente terremoto; ambiguità nella politica estera sospesa tra appartenenza alla Nato, strizzate d’occhio alla Russia putiniana, saggi di potenza armata nella prossimità; asprezze islamiste contro laicismo e Lgbtq), attribuisce al rieletto presidente una patente di invincibilità e un consenso dei quali gli avversari interni ed esterni non si disferanno facilmente.
La sconfitta non ha certo reso più coesa la “tavola” dei sei partiti alleati che ha provato a fermare il presidente uscente. Ciò comporta l’ulteriore rafforzamento di un Erdoğan intenzionato a proporsi come il nuovo Atatürk, padre della patria nella prima metà del XXI secolo come Mustafa Kemal lo fu nella prima metà del XX. Non casualmente nel primo discorso ha affermato che la sua riconferma coincide con l’apertura del “secolo della Turchia”.
Ci si interroga giustamente se e quali cambiamenti siano prevedibili per il nuovo mandato quinquennale. Non si attendono novità nelle priorità del regime, ma queste dovrebbero potersi esprimere con maggiore intensità, grazie alla sorta di “mano libere” che arriva dal voto. Si può addirittura temere il “libera tutti” per i peggiori istinti del padrone del grande paese euro-asiatico. In occasione della dura repressione del dopo “colpo di stato”, Erdoğan ha mostrato di quale pasta sia fatta la sua leadership. Gli elettori gli hanno ora conferito l’occasione per ripetersi, e non se la farà scappare. Pagheranno il conto i gruppi sociali contro i quali nei due decenni di potere trascorsi, il presidente turco ha maggiormente diretto i suoi strali: laici, Lgbtq, ragazze e donne non conformiste.
È probabile che la questione curda continui a non ricevere la risposta politica della quale vi è necessità, e che prosegua l’avventurismo in politica estera che ha caratterizzato gli ultimi anni di Erdoğan. L’influenza che il sunnismo esercita su Erdoğan, in quest’ambito non promette molto di buono. I due dossier, insieme a quello di un’economia che nel tempo della guerra russa ha fornito segnali negativi nonostante taluni indizi di ripresa, potranno rappresentare per il regime occasioni di crisi. Difficile che Erdoğan possa corrispondervi adottando le politiche di “apprendista stregone” che in materia ha esibito in passato. L’economia, in particolare, ha bisogno di risposte pragmatiche. Alta inflazione e bassi tassi di interesse per ora non pagano come il governo uscente aveva sperato, con effetti disastrosi sul valore della Lira turca. I deficit della bilancia dei pagamenti sono strutturali e non si vede come possano essere superati nel termine medio-lungo se Erdoğan invece di collaborare con Banca Mondiale, preferisce affidarsi a Putin giocando sul dossier energetico (nucleare e gas). Impensabile, in un contesto del genere, la ripresa degli investimenti esteri e prestiti importanti dalle grandi banche internazionali.
Il fatto è che il nazionalismo grandeturco sposato al sunnismo, mentre è stato l’elemento sul quale negli scorsi decenni si è fondato e rafforzato il potere di Erdoğan, potrà – in certe condizioni – costituire la ragione della sua caduta. I probabili insuccessi turchi in economia e in politica estera mostreranno i limiti di una retorica fondata su aggressività, imposizioni, populismo, discriminazioni. La Turchia laica e curda continuerà a resistere, aspettando la prima occasione risolutiva per riscattarsi dall’ennesima sconfitta elettorale subita. Riuscirà solo se troverà il modo per farsi ascoltare anche fuori dai centri urbani e saprà parlare alla vastissima “campagna” conservatrice e religiosa anatolica e del mar Nero, che in Erdoğan si identifica, anche per i benefici economici e sociali che ne ha ricevuto. Ben poco interessano alla “pancia” turca, in particolare a quella asiatica, i limiti democratici di un sistema parlamentare che il superpresidenzialismo costituzionale creato nel 2017 da Erdoğan ha affossato. Altrettanto si può dire di questioni come quelle curda e del non pieno rispetto dei diritti umani.
Si da però il caso che dette questioni interessino l’Ue (della quale la Turchia è paese candidato all’adesione) e la Nato (della quale la Turchia è membro). Di fronte a palesi violazioni dello stato di diritto, che hanno con evidenza influenzato anche il risultato elettorale, la politica dell’appeasement non ha pagato. Ci sono oppositori politici in carcere in Turchia che coerenza vorrebbe fossero in cima ai discorsi che i nostri leader fanno quando incontrano le autorità turche: il caso di Selahattin Demirtaş, capo del partito pro curdo Democratico Popolare è il più conosciuto. Ci sono politici ai quali si impedisce l’attività: il caso del sindaco di Istanbul Ekrem İmamoğlu è il più eclatante. Per non guardare allo strame che il regime turco ha fatto del principio della libertà di stampa e comunicazione. Il controllo stretto su agenzie, giornali, televisioni, così come l’arresto di giornalisti con l’accusa di “diffondere disinformazione” sono garantiti dalla recente “legge sulla disinformazione”.
Al vertice Nato di Vilnius di metà luglio, con i bombardieri strategici russi dell’“amico” Putin alle porte e il veto turco all’adesione svedese, ad Erdoğan potrebbero essere chiesti impegni precisi, magari in cambio di forti aiuti economici. Come sanno bene alla Commissione Europea per via del dossier migranti, a quell’argomento il presidente turco è sempre stato piuttosto sensibile. Checché ne dica la retorica nazionalista di Ankara, le Forze Armate turche hanno bisogno di ammodernamento, in particolare nella difesa aerea e missilistica, e – a parte ogni considerazione di opportunità – non potrà certo essere l’attuale Russia a provvedervi.