Arrivarci non è facile, uscirne ancor meno. L’area critica dell’alluvione in Romagna è un buco dove tutto sprofonda. Una ventina di treni ad alta velocità cancellati e linee interrotte, collegamenti locali sospesi tra Faenza e Rimini, tra Ferrara e la costa, ferrovia in tilt nella tratta Ravenna-Faenza via Granarolo, non si passa da Lugo, fuori portata Castelbolognese.
In strada va un po’ meglio: dopo la chiusura notturna per lavori fatti a tempo di record, l’Automare è stata riaperta in entrambe le direzioni ma su una sola corsia. Risultato scontato: chi si è messo in macchina con vanghe, mantelle impermeabili, stivaloni, guanti e buona volontà si rassegna a code chilometriche. Ma va avanti. Sono in tanti a voler esserci comunque, in mezzo al fango e sotto l’acqua che continua a imperversare da lunedì scorso, primo atto del diluvio.
Centinaia i volontari che si presentano a frotte, teleguidati dal cellulare attraverso i wapp e Telegram. Soprattutto ragazzi del circondario – <siamo forti e solidali, felici di sentirci utili> – oppure venuti da Bologna in giù per dare una mano a chi ha perso tutto, la casa e anche la vita, in questa regione ferita al cuore da un disastro colossale. Il punto di ritrovo sono i palasport riconvertiti a centro di accoglienza. I numeri dicono tutto: 14 vittime, quasi 20mila sfollati, migliaia di animali annegati (sono spariti interi allevamenti di polli e anatre), 23 fiumi esondati e altri 13 a cui basta un niente per tracimare, decine di migliaia di ettari di terra coltivata sommersi, ponti crollati, monti e colline che franano sulle abitazioni – come a Casola Valsenio nel Ravennate – portandosi dietro gli alberi e tutto quel che trovano nella loro pazza discesa.
Nel frattempo iI vento forte che sale dalla riviera dei sogni estivi, da Riccione, da Rimini, impedisce alla cascata d’acqua lurida e detriti di trovare sfogo in mare. A proposito: ciao, mare.

Difficile capire e difficile raccontare che cosa sta succedendo qui, nel centro del Belpaese azzannato alla gola da una Natura matrigna. Le immagini in tivù non rendono l’idea fino in fondo. L’umidità che entra nelle ossa, il rombo della piena, l’odore aspro dell’acqua stagnante, il rumore della carriole, il peso delle masserizie ammalorate messe alla rinfusa nella via. Vedere per credere. Il cronista si arrende all’evidenza e molla l’auto sul ciglio della strada, attaccata a molte altre, a un centinaio di metri dal casello dell’A14, uscita di Cesena. Da questo punto in poi si procede solo a piedi, nella palude flaccida. O meglio ancora sui canotti, quelli dei soccorritori, per vie trasformate in canali. L’acqua è penetrata dappertutto: case, uffici, negozi, magazzini, edifici pubblici, chiese, musei, biblioteche. La zona industriale, poi, è un panorama livido di capannoni fantasma: galleggiano in una laguna putrida, marrone scuro, che mette paura. Stessa scena allucinante circumnavigando Faenza: il distretto della ceramica affiora a malapena dal pantano limaccioso. Un cavallo cerca di guadagnare la riva annaspando controcorrente, un cagnolino fradicio ritrova i suoi padroni. Gli agricoltori offrono il sacrificio: molta della massa d’acqua verrà deviata sui loro terreni, pregiudicando il raccolto. <Non c’è altro da fare>, annuiscono accettando la pena.
Lacrime e pioggia, pioggia senza fine: mai vista tanta e tutta insieme. Gli esperti spiegano che in 36 ore ne è caduta quanta abitualmente in 6 mesi: <Un evento simile in Italia è senza precedenti a memoria d’uomo>, sottolinea Fabrizio Curcio, il capo della Protezione civile, che mentre parla appoggiato a un muro sporco spazzola via con la mano, in un gesto involontario, gli schizzi dalla divisa nera. Paolo Di Girolamo, docente di Fisica, ambiente e atmosfera, dal suo studio pieno di carte nell’Università di Calabria ammette: <Si tratta di fenomeni nuovi per noi, finora erano limitati alle grandi pianure americane e alle regioni tropicali>. Intanto la zona rossa si gonfia e si allarga fino alle Marche: Senigallia trattiene il respiro, torna con la memoria all’incubo dello scorso settembre, quando in un sol giorno il Misa superò gli argini portandosi via 13 persone. Allarme anche al Nord, con il Po – la portata è aumentata di cinque volte – e i suoi affluenti osservati speciali. Insomma in Romagna non è ancora finita e già si pensa a chi toccherà la prossima volta: per chi suona la campana? Sono rintocchi lugubri e periodici, che annunciano morte e distruzione.
<Scrivo da un paese che non esiste più>, dettava ai dimafoni Giampaolo Pansa, inviato de La Stampa nell’alta valle del Piave. Era la sera del 9 ottobre 1963. <Longarone è stato spazzato via in pochi istanti da una gigantesca valanga d’acqua, massi e terra piombata dalla diga del Vajont>. Le vittime nella vallata furono più di 2mila. Sergio Zavoli, testimone dell’alluvione del Polesine, raccontava così quel 14 novembre 1951: <Una tragedia annunciatasi con tanta, inutile chiarezza. Quando il Po ruppe, infatti, colse tutti di sorpresa. Eppure, l’immane sconfitta della previdenza e dei doveri, dell’avvedutezza e del civismo non suscitò rivalse, limitandosi a pretendere riparazioni: non istigò rancori, fece semmai esplodere una sorta d’insurrezione della bontà>. Oltre alle cento vittime, vale la pena ricordare che metà del territorio di Rovigo, della provincia di Venezia e della Bassa reggiana venne sommerso e 80mila dei 217mila sfollati non fecero ritorno a casa. La storia recente dell’Italia è attraversata da immani catastrofi d’acqua: da una parte la frana del Monte Toc; dall’altra la mancata tenuta del grande fiume. E naturalmente la devastante alluvione di Firenze del 1966. Ma poi, nel ’98, c’è stata Sarno. Ma poi, nel 2022, c’è stata Ischia. L’ultimo anello della catena è la Romagna di oggi. Ultimo che non sarà l’ultimo. E l’insurrezione della bontà stavolta rischia di finire in bagarre.

Gli studenti social che si rimboccano le maniche fra le macerie sono gli stessi che ogni venerdì abbiamo visto sfilare nelle città al grido di Salviamo il pianeta. Cantano in coro Romagna mia snobbando Bruce Springsteen che giovedì, a Ferrara, ha tenuto ugualmente il suo concerto senza spendere una parola per la gente con l’acqua alla gola. Li chiamano Angeli del fango, appellativo coniato per la meglio gioventù di ogni parte del mondo che si ritrovò a Firenze per aiutare chi ne aveva bisogno e salvare opere d’arte e libri di inestimabile valore. Senonché il presidente del Senato, Ignazio Larussa, ha invitato <gli ecoterroristi che vandalizzano i monumenti a imbracciare la vanga e andare a spalare il fango>. Secca la replica degli attivisti: <Noi siamo già qui, voi politici dove siete?>.
C’è da scommettere che sia l’inizio di una guerriglia a più largo raggio. <Questo è il momento dei soccorsi, non delle polemiche strumentali>, ammonisce il governatore Stefano Bonaccini fiutando l’aria. Climatologi, meteorologi, geologi sono scesi in campo. C’è un imputato illustre: il riscaldamento globale, addebitato alle nefandezze dell’uomo. E c’è un convitato di pietra: la politica. Francesca Giordano, ricercatrice dell’Ispra – l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale _, attacca: <Dare la colpa solo al cambiamento climatico è un modo per non volerci prendere la responsabilità di quanto sta accadendo. Questi fenomeni derivano da una combinazione di eventi, primo fra tutti un territorio molto fragile gestito in maniera disattenta. Oltre all’insufficiente manutenzione dei corsi d’acqua e all’eccessivo consumo di suolo>. Il punto finale si traduce con un termine esplicito: cementificazione. <L’Emilia Romagna ha consentito di costruire in zona pericolose, esponendo le popolazioni a un rischio. Ci sono edifici, forse condonati nel tempo, che si trovano a ridosso degli argini dei fiumi. L’impermeabilizzazione del suolo rende il territorio meno in grado di assorbire l’acqua>.
Da dove partire per evitare ulteriori tragedie? Antropocene viene definita l’attuale era geologica. Un tempo in cui la Terra, nelle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, è stata modificata pesantemente dall’azione dell’uomo, con particolare riferimento alle emissioni di anidride carbonica. Tesi che fa litigare gli scienziati. In una audizione del 2014 al Senato, il premio Nobel per la fisica Carlo Rubbia ha sostenuto: <Il clima della Terra è sempre cambiato. Oggi noi pensiamo che, se teniamo l’anidride carbonica sotto controllo, il clima resterà invariato. Questo non è assolutamente vero. Se restiamo nel periodo degli ultimi 100 anni, ci sono stati dei cambiamenti climatici notevoli, avvenuti ben prima dell’effetto antropogenico, dell’effetto serra e così via. Vorrei ricordare che dal 2000 al 2014 la temperatura della Terra non è aumentata: è diminuita di 0,2 gradi>. Sullo stesso tema il professor Antonino Zichichi, in una intervista del 2017, aveva dichiarato: <L’inquinamento esiste, è dannoso e chiama in causa l’operato dell’uomo. Ma attribuire alla responsabilità umana il surriscaldamento globale è un’enormità senza fondamento: puro inquinamento culturale. L’azione dell’uomo incide sul clima per non più del dieci per cento. Per il resto, il cambiamento climatico è governato da fenomeni naturali dei quali, a oggi, gli scienziati non conoscono e non possono conoscere le possibili evoluzioni future>.
Situazione inquietante. Priva di certezze. E allora forse conviene partire dai rimedi di base, quelli che l’esperienza e il buonsenso suggeriscono. Prevenire. Curare il territorio. Vigilare sui letti dei fiumi, gli argini, il bosco e il sottobosco. Salvaguardare le foreste. Non costruire nelle aree golenali. Combattere l’inquinamento ambientale. Fissare piani edilizi seri. Contrastare la speculazione. E rimboccarsi le maniche, senza divisioni, quando succede il patatrac. Come fanno i ragazzi e le ragazze del fango che, a sera, si dirigono al centro di raccolta per pianificare gli interventi del giorno dopo, guidati dagli uomini e le donne della Protezione civile. Cantando ancora Romagna mia. E sperando che smetta di piovere, finalmente.