Già dalle prime battute, il viaggio apostolico di papa Francesco in Ungheria (28-30 aprile) ha ribadito l’asimmetria tra i principi di politica internazionale della Santa Sede e quelli praticati, con rarissime eccezioni, dagli stati. È un’asimmetria che ha percorso l’intero novecento, tuttora irrisolta. Benedetto XV (1854–1922), il papa che nel 1917 scriverà ai “capi dei popoli belligeranti” responsabili della “inutile strage”, già nella prima enciclica del 1914 Ad Beatissimi apostolorum principis condannava la guerra come strumento per la soluzione delle controversie tra le nazioni. Pio XII (1876–1958) spiegava nel radiomessaggio del 24 agosto 1939 “ai governanti ed ai popoli nell’imminente pericolo della guerra”: “Nulla è perduto con la pace, tutto può essere perduto con la guerra”.
Di Giovanni XXIII e della sua Pacem in Terris abbiamo appena ricordato il sessantennio su queste colonne. Paolo VI e il Concilio Vaticano II, attraverso Gaudium et Spes, approfondirono l’enciclica rilevando come la guerra sarebbe stata estirpata solo con la conversione della condizione umana aggressiva. Lo stesso Paolo VI, lanciando la giornata mondiale della pace, spiegava all’Onu, nel 1978, che la guerra non è più giustificabile, essendosene «enormemente accresciuto l’orrore e l’atrocità». Sarà poi il Catechismo della chiesa cattolica a mostrare nel 2005, sotto la direzione di Ratzinger, che la polemologia cattolica fissa paletti rigidi anche in materia di diritto alla difesa e guerra giusta: valgono proporzionalità della violenza, distinzione fra combattenti e non, giusta causa, retta intenzione, plausibilità della vittoria.
Il fatto è che la Santa Sede ha natura diversa da quella degli stati. Tanto questi nascono dalla violenza e si mantengono attraverso di essa – Max Weber definì gli stati monopolisti della forza/violenza (Gewalt) legittima – tanto Roma “è la voce di chi non ha interessi, né poteri politici ed ancor meno forza militare […] l’eco della coscienza morale dell’umanità allo stato puro […] non accompagnata da preoccupazioni o interessi di altra natura (Giovanni Paolo II, messaggio all’Onu del 1982). Nel trattato del Laterano (1929, art. 24) la Santa Sede si era dichiarata “estranea alle competizioni temporali fra gli stati […] a meno che le parti contendenti facciano concorde appello alla sua missione di pace, riservandosi in ogni caso di far valere la sua potestà morale e spirituale”. La chiesa cattolica tira diritto per la sua strada, ispirata da Cristo e dal Vangelo; gli stati si fondano sul warfare, che solo in rarissimi casi riescono a calmierare grazie alla democrazia.
In questa consapevolezza, Francesco è arrivato a dire, nell’intervista a La Stampa dello scorso giugno: “[allontaniamoci] dal normale schema di Cappuccetto rosso: Cappuccetto rosso era buona e il lupo era il cattivo. Qui [nella politica internazionale] non ci sono buoni e cattivi metafisici, in modo astratto.”
Affermazione pesante, impossibile da accettare per chi ritenga che siano solo le dittature a scatenare le guerre, ma comprensibile nella logica di ogni papa, chiamato dalla sua missione universale a ergersi contro la sofferenza umana e la distruzione della natura generate dai conflitti tra stati. Francesco ha dinnanzi più di 170 conflitti armati e quattro guerre classiche, mai così tante dal 1945. Guarda a circa due miliardi di persone in aree sotto violenza politica, e alle decine di milioni di persone in fuga. Grida – come un Battista nel deserto degli stati – contro i leader che uccidono e chi vende tecnologie e armamenti, ritenendo che “le guerre si fanno per sperimentare nuove armi”. Propone quella che padre Spataro ha chiamato ”la diplomazia della misericordia”, ovvero “non considerare mai niente e nessuno come definitivamente ‘perduto’ nei rapporti tra nazioni, popoli e stati”. È una diplomazia fondata sulla speranza cristiana, ovvero sulla fede nel “Dio della speranza, che riempie di ogni gioia e pace” nelle parole di Paolo ai Romani.
Si può obiettare che questo tipo di diplomazia abbia funzionato solo quando il carisma degli uomini di chiesa si sia manifestato attraverso rapporti personalizzati: tra Leone Magno e Attila, Francesco d’Assisi e il sultano Malik al-Kāmil, Matteo Ricci e i Ming, Desmond Tutu e Pieter W. Botha, Giovanni Paolo II e Gorbačëv. Nella diplomazia classica – come le azioni attuali di Francesco e del suo segretario di Stato, Pietro Parolin per far cessare l’aggressione russa all’Ucraina – l’intuitu personae manca. Così accade ciò che il cardinale Parolin ha riassunto all’Ansa il 10 agosto 2022: “La voce del papa, spesso, è … come un seme gettato, che ha bisogno di un terreno fertile per portare frutto. Se gli attori principali del conflitto non prendono in considerazione le sue parole, purtroppo, non succede nulla”. Succede anzi che, per provare ad esercitare con equidistanza il magistero di mediazione, il papa sia accusato di complicità oggettiva con l’invasore, quando ha chiarito in più occasioni che non si possono mettere sullo stesso piano aggressore e aggredito e che è un diritto, anzi un dovere, difendere la patria. Al papa si continua a rimproverare la frase sulla Nato “andata ad abbaiare alle porte della Russia”, nonostante abbia chiarito in più occasioni che stava citando la confidenza di un autorevole capo di stato, non il proprio pensiero.
Nel discorso a presidente e capo di governo ungheresi, il 28 aprile, papa Bergoglio ha ribadito la “passione per la politica comunitaria e per la multilateralità “ si è rammaricato del “triste tramonto del sogno corale di pace” e dei crescenti “solisti della guerra”, del “ruggire [de]i nazionalismi”. della regressione collettiva “a una sorta di infantilismo bellico”. Ha ricordato che occorre “ritrovare l’anima europea: l’entusiasmo e il sogno dei padri fondatori” citando lo Schuman del 9 maggio 1950, con la prima pietra del progetto sovranazionale europeo: “Il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche», in quanto – parole memorabili! – «la pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano»”. Aggiungendo: “mi chiedo, anche pensando alla martoriata Ucraina, dove sono gli sforzi creativi di pace?”
A 86 anni suonati, appoggiato a un bastone, Bergoglio l’ha cantata papale papale a un governo che si dichiara difensore del cattolicesimo ma si schiera con la Russia, perseguita chi chiede asilo, viola lo stato di diritto e sfida le leggi democratiche dell’Ue. Il corrispondente di BBC ha osservato: “Government ministers listened stony-faced.”