Era il giovedì santo del 1963. Giovanni XXIII aveva atteso quell’11 aprile, commemorazione dell’ultima cena di Gesù, per promulgare un’enciclica che sarebbe rimasta nella storia. A metterla di una spanna sopra tante altre, i contenuti imprescindibili, la completezza, e soprattutto l’afflato profetico, già nell’apertura: “La Pace in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi…”. Il documento era stato ispirato dalla crisi di Cuba dell’anno prima e dal puzzo di polveri che arrivava dall’Asia, con gli Stati Uniti pronti a intervenire nel Vietnam del sud e i cinesi in rottura con Mosca.
Pacem in terris sarebbe divenuta il testamento spirituale del “papa buono”, scomparso neppure due mesi dopo, in un annus horribilis che, a novembre, avrebbe registrato l’assassinio dell’altra grande speranza di quegli anni, John Kennedy. Vale la pena ricordare l’anniversario del testo giovanneo nel mezzo di questo nostro periodo buio, con le minacce nucleari del bullo russo contro chi si oppone al tentativo di cancellare l’Ucraina dalla carta geografica.
Allora come ora l’enciclica propone un modello alternativo a quello praticato dalla logica di potenza che, ciclicamente, spinge il sistema internazionale sul bordo dell’irreparabile. Il modello della chiesa mette al centro la persona non gli stati, con un’antropologia integrale che spinge l’essere umano a riconciliarsi con l’armonia del creato. Gli stati sono chiamati ad uniformarsi al piano fissato da Dio, smettendo di ritenersi al di sopra e al di fuori dei doveri cui è obbligata ogni creatura. Per l’autorità che rivestono, sono anzi richiesti di praticare con pienezza quei doveri, tra i quali la non violazione dei diritti delle persone – l’enciclica ne offre un caparbio dettagliato elenco – perché “universali, inviolabili, inalienabili”.
L’enciclica contesta il diritto all’aggressività e alla violenza che gli stati da sempre rivendicano e praticano: “Con l’ordine mirabile dell’universo continua a fare stridente contrasto il disordine che regna tra gli esseri umani e tra i popoli; quasi che i loro rapporti non possano essere regolati che per mezzo della forza.” Per papa Roncalli, contrariamente alle dottrine circolanti sulla diversa ed esclusiva natura dello stato, l’autorità di questo non deriva dalla capacità di gestire la forza in regime di monopolio, e di attribuirsi la libertà di usarla a piacimento, ma dalla disponibilità e capacità di reggere un ordine interno e internazionale fondato sul rispetto dell’ordine universale di natura. Nella logica di Pacem in terris la forma suprema di uso della forza – la guerra – è la manifestazione più “stridente” del “disordine che regna tra gli esseri umani e tra i popoli”, segno di fin dove possa spingersi la pretesa autoreferenziale degli stati, insensibile persino al fatto che “si diffonde sempre più tra gli esseri umani la persuasione che le eventuali controversie tra i popoli non debbono essere risolte con il ricorso alle armi; ma invece attraverso il negoziato”.
A Giovanni XXIII non sfuggiva che se per scatenare il conflitto basta un aggressore, per il processo di pacificazione occorre il concorso di molti. Tanto più che, come maliziosamente ebbe ad osservare a suo tempo Vladimir Lenin annotando il testo del maestro polemologo Carl Von Klausewitz, nei lunghi anni di lavoro nella diplomazia vaticana aveva assistito in più occasioni al perfido gioco che mette sul banco degli accusati non tanto l’aggressore, quanto chi da questi è costretto ad attingere a dosi incrementali di forza per respingerlo.
Di conseguenza richiamò le comunità politiche a regolare i rapporti sulla base di quattro principi: verità, giustizia, solidarietà operante, libertà. “La stessa legge morale che regola i rapporti fra i singoli esseri umani, regola pure i rapporti tra le rispettive comunità politiche” aggiunse, echeggiando e anticipando i principi della “guerra giusta” che da Agostino e Tommaso sino al teologo Reinhold Niebuhr e a papa Giovanni Paolo II avrebbero chiarito la spinosa questione del realismo cristiano di fronte alla maledizione della guerra e dell’aggressività degli stati. Una maledizione che ha trovato la più esplicita evidenza nella fiorente industria degli armamenti e nel principio che solo la parità tra le forze possa evitare l’insorgere di guerre estreme.
Roncalli non nega che il peccato originale possa spiegare l’incapacità di Caino a redimersi dall’assassinio del proprio fratello, ma si tiene la speranza cristiana che si possa procedere ad “un disarmo integrale” così che “si smontano anche gli spiriti, adoprandosi sinceramente a dissolvere, in essi, la psicosi bellica”. In termini politici, l’enciclica chiede che “al criterio della pace che si regge sull’equilibrio degli armamenti, si sostituisca il principio che la vera pace si può costruire soltanto nella vicendevole fiducia.”
Intanto, nell’esigenza di garantire giustizia, le “comunità politiche hanno il diritto all’esistenza, al proprio sviluppo, ai mezzi idonei per attuarlo [e che] nei rapporti fra le comunità politiche, alle une non è lecito sviluppare se stesse comprimendo od opprimendo le altre.” Per rafforzare il concetto Pacem in terris cita Agostino d’Ippona: “Abbandonata la giustizia, a che si riducono i regni, se non a grandi latrocini?”
Resta aperta la questione sul cosa fare di fronte ai “grandi ladri”: di territori, di vite umane, di bambini come oggi i ladri russi in Ucraina. Papa Roncalli è consapevole che non si dispone di un potere umano superiore che forzi gli stati a praticare la pace nella giustizia. Nell’enciclica evoca il bisogno di istituzioni (“la comunità mondiale, la cui creazione oggi è urgentemente reclamata dalle esigenze del bene comune universale.”) che superino l’aggressività fra gli stati, e invoca ben altro ruolo per le Nazioni Unite: “Auspichiamo pertanto che l’Organizzazione delle Nazioni Unite […] si adegui sempre più alla vastità e nobiltà dei suoi compiti; e che arrivi il giorno nel quale i singoli esseri umani trovino in essa una tutela efficace in ordine ai diritti che scaturiscono immediatamente dalla loro dignità di persone”.
Proprio alle Nazioni Unite, Giovanni Paolo II, avrebbe scritto – nel messaggio del 1982 in occasione della 2^ sessione speciale per il disarmo – che la chiesa “rivendica per ogni nazione il rispetto dell’indipendenza, della libertà e della legittima sicurezza”, consapevole che sin quando non troverà realizzazione l’auspicio di Pacem in terris per un ruolo risolutivo dell’Onu nei conflitti, solo l’esercizio del diritto alla giusta difesa possa garantire quelle esigenze.