Le dichiarazioni del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump sulle reali cause dei cambiamenti climatici globali e sulle conseguenze delle emissioni di CO2 sono oggetto di dibattito da mesi. A rendere più ampio il gap che separa Trump dal suo predecessore, Barack Obama, sarebbe stata anche la decisione di quest’ultimo di versare, solo tre giorni prima della scadenza del proprio mandato, la ragguardevole somma di 500 milioni di dollari al Green Climate Fund. Una decisione che molti definirono uno schiaffo ambientalista nei confronti del nuovo presidente eletto suo successore, ma che nascondeva molto di più. Quella di Obama in realtà sarebbe stato solo un tentativo in extremis di rispettare, se non in toto (la promessa era di versare tre miliardi di dollari per anno), almeno in parte, le promesse fatte e mai mantenute dagli Usa.
A confermarlo ciò che è avvenuto nei giorni scorsi a Bonn, in Germania, dove si sono tenuti gli incontri preparatori per la COP23, affidata alle isole Fiji, ma che si svolgerà, appunto, in Europa. Molti i temi discussi durante i lavori: dalla diversità dei cambiamenti climatici ai temi “caldi” sul surriscaldamento del pianeta, dalle tecnologie innovative per ridurre le emissioni alle modalità di realizzazione del concorso per i giovani sui cambiamenti climatici. Alla fine i convenuti hanno trovato il tempo per parlare anche di uno dei temi più spinosi: come fare per aiutare i paesi meno sviluppati a ridurre le emissioni. Ovvero, il Green Climate Fund.
Sebbene se ne parli poco (anzi pochissimo), potrebbe essere questa la vera ragione dell’ostinazione (secondo molti assurda e priva di ogni fondamento scientifico) del presidente americano Donald Trump di negare gli effetti delle emissioni di CO2.
Uno dei maggiori problemi relativi al surriscaldamento globale e alle emissioni di CO2 è il diverso livello di sviluppo dei vari paesi del pianeta. Le nazioni meno sviluppate avallano il proprio diritto di fare la stessa cosa che hanno fatto tutti gli altri paesi, quelli che ora sono “più sviluppati”: inquinare per produrre e far crescere l’economia.
Il problema di consentire a questi paesi di colmare il gap che li separa dai paesi più sviluppati e dell’impatto sull’ambiente che ciò comporta, era emerso già nel 2009, durante la XV Conference Of the Parties (COP15) a Copenhagen. Fu allora che venne sottoscritto il Copenhagen Accord, un accordo che prevedeva la creazione del “Copenhagen Green Climate Fund”: i paesi meno sviluppati avrebbero ricevuto aiuti per modernizzare e rendere meno invasiva per l’ambiente la propria capacità produttiva e ridurre le emissioni di CO2 a livello globale grazie ai fondi versati dai paesi più sviluppati.

Chi e quanto avrebbe dovuto finanziare questo fondo venne deciso poco dopo, nel 2010, a Cancun durante la United Nations Climate Change Conference: ogni paese “sviluppato” avrebbe dovuto contribuire al fondo per una quota parte (la maggiore era quella degli USA) per complessivi 100 miliardi di dollari all’anno (tranne una prima fase di start up di tre anni che prevedeva contributi minori).
Il problema è che, come è apparso con chiarezza nel corso dei lavori appena conclusi a Bonn, i paesi più sviluppati (primi fra tutti gli Stati Uniti) non hanno tenuto fede agli impegni presi. Spenti i riflettori, la maggior parte dei paesi sviluppati hanno dimenticato quali erano gli impegni presi e così, ad oggi, nelle casse del GCF sono arrivati meno di 30 miliardi di dollari (e molti di questi più promessi che effettivamente versati), invece delle centinaia di miliardi che sarebbero dovute arrivare.
I partecipanti agli incontri di Bonn dei giorni scorsi, hanno dovuto prendere atto che il fallimento degli accordi di Parigi e di Marrakech sono dovuti non solo alle dichiarazioni di soprattutto alla mancata attuazione di molte delle iniziative per favorire lo sviluppo di economie sostenibili nei paesi meno sviluppati.
E la situazione, nel prossimo futuro potrebbe peggiorare ulteriormente dato che sono in molti ad esercitare forti pressioni perché si rinunci del tutto agli impegni presi (forse anche temendo una concorrenza insuperabile): lo stesso Trump ha dichiarato “We’re not spending money on that anymore”, con un chiaro riferimento al GCF. Negli Stati Uniti sono in molti, a condividere il suo punto di vista: il senatore repubblicano John Barrasso, ha obiettato che l’impegno del governo di contribuire così lautamente al fondo non sarebbe mai stato autorizzato dal Congresso e ha definito le risorse impegnate “un insulto ai contribuenti americani”.
Una situazione che vede anche l’Europa sul banco degli imputati: se da un lato, quando si tratta di fare promesse è l’Unione Europea a mettersi in prima fila, dall’altro, nel caso degli impegni a versare quote rilevanti al GCF, proprio l’Unione si è tirata indietro, lasciando ai singoli paesi il compito di rispettare questi impegni. Se veramente fossero state versate le somme promesse, lo sviluppo delle economie di molti paesi africani sarebbe già realtà. Con conseguenze notevoli nella riduzione dei flussi migratori, nell’abbattimento delle emissioni, nella crescita sociale e nella riduzione delle disparità in molte zone del pianeta. Ma questo cambiamento avrebbe privato i paesi sviluppati dei principali mercati di riferimento sia per l’approvvigionamento di materie prime e semilavorati a bassissimo costo che come mercati ai quali vendere buona parte dei prodotti finiti. In altre parole di continuare a decidere del futuro del pianeta. Forse, a pensarci bene, è proprio questo il motivo per cui molti di loro hanno finto di aver dimenticato le promesse fatte per contribuire al GCF.