Aristide Briand (non Georges Clémenceau come spesso si legge) diceva che la guerra era cosa troppo seria per lasciarla fare ai generali. “La guerre! C’est une chose trop grave pour la confier à des militaires”. L’uomo politico francese riteneva che le forze armate dovessero sottostare ai politici, i soli titolati ad esercitare il potere castrense. Qualche decennio più tardi, un grande militare, il generale Charles de Gaulle, si sarebbe impadronito democraticamente del potere e da lì avrebbe, da politico, fatto e disfatto guerre. Militari, anche ai nostri giorni, in giro per il mondo, governano e/o occupano poltrone di potere, talvolta anche in modo egregio.
La contiguità tra gestione del consenso popolare e gestione tecnocratica della difesa fa sì che le competenze che Briand attribuiva al ceto al quale lui stesso apparteneva, possano essere trasferite per osmosi ai più alti livelli della vita militare. E’ il meccanismo che spiega perché il Lt. Gen. H. R. McMaster possa degnamente assurgere a National security adviser, nonostante quel ruolo risulti più adatto a un esperto di politica internazionale in senso stretto.
Se ai militari è vietato dal potere politico fare la guerra in proprio, ad essi è concesso di contribuire alla definizione della politica e magari governare, come toccò a Eisenhower. Se faranno guerre da quella posizione di comando supremo, potranno persino condurle meglio dei politici in senso stretto, magari desiderando la pace più dei tanti politici che fanno guerre ignorando cosa esse siano.
Si ammetterà che quando non si danno casi di prossimità così lampanti, l’accesso alla carriera politica di personaggi che con essa nulla hanno a che spartire, qualche interrogativo possa porlo.
In genere gli interrogativi riguardano le competenze e l’esperienza. Un’arte così complessa e onnicomprensiva come quella della politica richiede, per essere ben esercitata, competenze multiformi. I figli di re studiano sin dal primo vagito come succedere alla corona: ci sarà pure una ragione. Occorrono competenze tecniche e amministrative di ogni tipo, capacità di rapportarsi alla propria constituency, un livello culturale che eviti gaffe, senso di servizio alla nazione e all’umanità, e così via.
Ma ci sono altri interrogativi. Perché taluni uomini che nulla hanno a che fare con la politica, decidono di accedervi? Filantropismo? Senso di una missione da compiere? O magari il tentativo di usare lo stato e la cosa pubblica per propri impronunciabili fini come l’arricchimento proprio e di interessi collegati?
Si dice che la politica si muova sulla base di ideologie e/o di interessi. I due elementi, tra ottocento e novecento, sono stati declinati attraverso l’azione di partiti, sindacati, corpi intermedi di rappresentanza di interessi: soggetti in qualche modo a disposizione delle istituzioni costituzionalmente garantite che facevano funzionare lo stato e la cosa pubblica. Nel sociale destrutturato dei nostri giorni, agli intermediari sociali tradizionali si sono sostituiti, grazie anche alle tecnologie informatiche la cui ultima evoluzione non casualmente viene spacciata come “social” quando in realtà è l’immensa spaesata sommatoria di solitudini collettive, abili affabulatori che generano consenso carismatico su parole d’ordine di immediata accoglienza.
Il problema, evidentemente, arriva quando l’affabulatore, forte del consenso raccolto, arriva nella cittadella del potere. La complessità della macchina politica gli chiede competenze che non possiede. La “parzialità” della sua visione (sia essa ideologica o espressione di interessi particolari) si scontra con la “pienezza” della funzione che deve interpretare. E’ l’impotenza o peggio.
E questo senza far pesare sul piatto della situazione richiamata, i vincoli che il rapporto con altri paesi e con il sistema internazionale mettono addosso a chi ritiene che la politica sia “semplice” e “libera”, ignorando quanto essa sia determinata da situazioni, prassi e, perché no? leggi scritte e trattati che nessun “unto dal popolo” potrà ignorare, di qualunque dimensione sia la sua pretesa di dominio e affermazione.
Bisognerebbe condividere il principio che chiunque, scelto dal popolo o da organo che ne aveva titolo, in assenza di capacità e competenze sia dichiarato inadatto a proseguire nell’incarico. O meglio, che l’accesso alle cariche di maggiore rilievo istituzionale, sia consentito soltanto a chi mostri un percorso, in incarichi di pubblica utilità e nelle istituzioni, che lo rendano un potenziale credibile esecutore del mandato che chiede o che si rende disponibile a ricevere. Se competenze specifiche e un resume professionale ed etico, sono richiesti a chiunque si candidi a posizioni di management in qualunque impresa e attività professionale, come può immaginarsi che le più alte magistrature e responsabilità di uno stato possano essere affidate, in nome di un fasullo principio di eguaglianza delle opportunità, ad incompetenti o peggio? Non è consentito che una persona si metta alla guida di un’automobile senza il debito permesso, mesi di formazione, esame ad hoc, ma si consente, anzi si pone a cardine di un sistema politico, che chiunque possa mettersi alla guida di una nazione senza alcun attestato di capacità? Il popolo ha il diritto dovere di indicare da chi vuole essere governato, ci mancherebbe! E la sua scelta sarà rispettata anche quando risultasse, nei fatti, una cattiva scelta. Ma il popolo dovrebbe pretendere delle qualifiche prima di scegliere. E’ nel suo interesse farlo. In questa epoca storica, invece, il popolo ama affermare il contrario: che chiunque possa prendere il potere, purché parli, convinca, incassi i voti necessari a governare.
Due utili citazioni, rispettivamente da oriente e occidente, possono animare il dibattito sulla tesi dilagante: che anche mascalzoni e asini governino purché votati. Il grande sapiente cinese Confucio, il cui pensiero è alla base della realtà politica che si prepara a rilevare il primato globale, affermava: “Se fossi imperatore, comincerei dal fare un dizionario, così da restituire un senso alla parole”. Non c’è al mondo ceto dirigente più preparato di quello cinese, e in quella società il regime, benché dispotico, seleziona per le posizioni di comando i migliori, sapendo che per rendere forte la nazione va consegnata nelle mani di gente competente e patriottica, che conosca leggi e amministrazione. Da quelle parti si studia da pazzi: si occupano posti di potere per fedeltà al partito, alla patria e .. al sapere, perché circola l’idea che chi sa batte sempre chi non sa. Lo scrittore francese Jean Cocteau, guardando alle nostre contrade, direbbe: “ Il dramma della nostra epoca è che la stupidità si è messa a pensare”.
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E tuttavia i guai, nella città politica, possono essere compiuti anche da persone intelligenti: è sufficiente che l’intelligenza si trasformi in presunzione, o peggio. Nell’America disorientata che s’interroga su come fare i conti con le quotidiane bravate di Trump, non circola l’iniziativa politica di politici oppositori del presidente, ma l’estemporaneo manifesto di Mark Zuckerberg, che sarà pure degnissima e intelligentissima persona ma, come si direbbe in qualche parte d’Italia: “va a capire che c’azzecca!”.
Mark informa che si propone di rendere visita, entro l’anno, ai cinquanta stati dell’Unione per “… parlare con quanta più gente possibile riguardo la loro vita, il lavoro e la loro idea del futuro”. Manco a dirlo, l’annuncio è registrato sulla pagina Facebook.
Torna quindi in campo lo schema di lavoro della polverizzazione della comunicazione politica, in vista di riaggregazioni acritiche, di tutti coloro che restano presi nella rete intorno al candidato carismatico d’occasione. Si sarà detto il nostro Mark: se lo fa con successo Grillo in Italia e Donald in US, ti pare che io, sommo inventore e interprete del social network non possa portare a caso un risultato persino migliore? E difatti scrive, per i suoi 1,79 miliardi di follower: “Non vedo l’ora di cominciare, e spero di incontrarvi!”.
Perfettamente allineato in termini di comunicazione popolare, da magnate con ambizioni politiche, Mark inizia anche a smussare angoli della sua personalità difficilmente “vendibili” elettoralmente, come quello del proclamato scetticismo religioso. A Natale, esponendo in pubblico il ritratto conciliante di famiglia allargata al cane Beast, ha inviato universali auguri di Natale e Hanukkak ebraica. Quando il rompiscatole di turno gli ha ricordato che lui era ateo, gli ha risposto, nel perfetto stile post-verità che impera a Washington: “Ma no, ho avuto educazione ebraica”, aggiungendo che sì certo aveva avuto il suo periodo di dubbi, ora terminati, concludendo “penso che la religione sia molto importante”.
Si trova di più, spigolando, nel Zuckerberg pensiero. Ad esempio l’affermazione che, con Facebook e l’iniziativa Chan Zuckerberg (Chan è la moglie di Mark), si possa “guidare il mondo verso un nuovo importante periodo”.
E poi, alla cuspide dell’escalation comunicazionale iniziata a Natale, la “letter” in quasi 6.000 parole del 16 febbraio, consultabile online, imperniata sulla funzione comunitaria di Facebook. Come si capirà dai brevi cenni che seguono, viene auspicata la destrutturazione di quel po’ di società civile che resiste in autonomia dalla civiltà informatizzata. Ovviamente, con dialettica tanto cara al vecchio schema hegeliano, dalle ceneri sarà generata la fenice della nuova società e delle nuove comunità locali, interconnesse per diventare comunità globale colma di virtù e civismo. Peccato che dalle ceneri, in genere non nasca molto, e che esse tendenzialmente si disperdano nel vento.
Può far piacere a chi milita nel campo progressista che Zuckerberg, ben schierato a favore della società aperta e globale, tollerante e inclusiva, possa pensare di proporsi alla guida di un movimento che, partendo dai social, intende sovvertire l’attuale ordinamento di potere, in talune sue manifestazioni persino reazionario.
La domanda che pone in inizio della sua lettera, per quanto retorica, non desta equivoci: “Are we building the world we all want?”.
E così la risposta, in totale antitesi all’America First della Casa Bianca e al truce nazionalismo che incarna: “Our greatest opportunities are now global — like spreading prosperity and freedom, promoting peace and understanding, lifting people out of poverty, and accelerating science. Our greatest challenges also need global responses — like ending terrorism, fighting climate change, and preventing pandemics. Progress now requires humanity coming together not just as cities or nations, but also as a global community.”.
La questione, però, è che comunità e impegno civico, non sono dati virtuali, ma terribilmente concreti, e che se non si esce dall’equivoco delle reti fittizie online per tornare a quelle dei rapporti umani concreti e organizzati attraverso gli intermediari sociali reali, la democrazia non può tornare ad esistere come piazza, agorà, dell’incontro effettuale sui concreti bisogni degli esseri umani. Ipotizzare che Facebook sia “infrastruttura sociale” che possa costituirsi in base della nuova società globale e delle varie comunità da edificare secondo il modello che il padre di Facebook propone nel suo manifesto, è quanto meno fuorviante.
Un’ultima osservazione. Se davvero la lettera del 16 febbraio firmata Mark, fosse l’avvio della campagna dell’oppositore di Trump, sorgerebbe un altro interrogativo. Si può consegnare la democrazia americana al CEO della corporation che ha in pancia dati personali, anche intimi, di miliardi di persone, e di praticamente tutti i cittadini statunitensi, senza chiedersi se a incompetenza della cosa pubblica e forse malsane ambizioni personali del candidato, non si sommi anche l’obiettiva situazione di rischio che l’elezione comporterebbe per la privacy e la sicurezza personale dei cittadini?