E’ presto per esprimere un’opinione definitiva sugli effetti della decisione referendaria di abbandonare l’Unione Europea. Per almeno tre buoni motivi.
Il primo è che sul piano effettivo l’uscita comincerà ad esserci solo dall’apertura del negoziato, previsto da Londra a marzo del prossimo anno, o più realisticamente solo al termine dello stesso.
Il secondo è che troppe sono le variabili indipendenti in gioco, a carattere politico, strategico ed economico: come evolveranno negli anni che trascorrono da ora al termine del negoziato di uscita nessuno può seriamente dirlo.
Il terzo è che al termine “uscita” si danno le più distanti interpretazioni. Si dice in genere che l’establishment britannico stia riflettendo su due modelli di uscita alternativi, definibili brevemente “morbido” e “duro”. Il primo fu praticato dalla Norvegia, al ripetuto rifiuto referendario dei suoi cittadini di procedere a braccetto degli altri scandinavi e nordici nell’Unione Europea, e in qualche modo dalla Svizzera. Esiste nel vecchio continente, tra le tante istituzioni che danno collante al concetto d’Europa lo “Spazio economico europeo” che consente a stati non membri ma con atteggiamento amichevole verso l’Unione (il caso della Norvegia) di essere parte del mercato comune e trarre vantaggi dalla libertà di scambio e movimento da questo realizzato, pur pagando all’Unione un prezzo salato in termini finanziari. A sentire il primo ministro britannico Theresa May, il Regno Unito intende perseguire l’altro modello, quello del taglio netto e del ripiegamento nazionalistico dentro i propri confini. Uscita dura e pura, dunque, sia!
Non sarà facile per lady May pilotare Britannia così fuori dalle acque dell’Unione Europea, a meno che non voglia passare alla storia come colei che disunì il Regno Unito. In politica ad ogni azione, corrisponde un’azione eguale e contraria. In questo caso: dura Londra, altrettanto e ancor più dure Bruxelles e le altre capitali, in un sulfureo quanto antistorico gioco al rialzo di durezze reciproche che nulla ha a che vedere con la vicenda europea dal dopoguerra ad oggi, puntata ad abbattere steccati e divisioni non a crearne di nuovi. Quanto dichiarato dal presidente francese François Hollande al recente Consiglio Europeo non fa certo sconti sul prevedibile conflittuale scenario. Che il neo-nazionalismo britannico e l’ideologia (sostanzialmente razzista) dell’exceptionalism anglosassone possano prevalere nel Regno Unito, tuttavia, sorprenderebbe alquanto. Nel governo ci sono posizioni non allineate. Per non dire del partito Conservatore, la cui politica sull’Europa, neppure con Margaret Thatcher era mai stata tanto oltranzista.
E comunque, se lo scenario dovesse essere quello della “durezza”, si è facili profeti nel prevedere che sulle sponde del Tamigi si dirà, con gli antichi: “mala tempora currunt”.
Basta mettere in fila alcuni dei fenomeni che, facilmente previsti su queste colonne in sede di commento al referendum di giugno, stanno poco alla volta prendendo ora corpo.
La premier scozzese e leader di Scottish National Party, Nicola Sturgeon, ha confermato il 13 ottobre che, avendo il 62% degli scozzesi votato per restare nell’Ue, lei è in obbligo di convocare un nuovo referendum sull’indipendenza da Londra e che, comunque, avvierà procedure con Bruxelles per consentire agli scozzesi di non soffrire tutti gli effetti negativi che immaginano deriveranno loro dall’isolazionismo britannico.
Gerry Adams, capo di Sinn Fein, il partito dei cattolici repubblicani filo Dublino, le ha fatto eco dall’Irlanda del Nord, con motivazioni non dissimili: avendo noi espresso una vasta maggioranza in favore dell’Ue, che almeno Londra non ci tolga il mercato comune.
Ammesso e non concesso che Bruxelles possa accettare impostazioni del genere da parte di Edinburgo e Belfast, si provi a immaginare Galles e Inghilterra fuori dal mercato comune con Scozia e Irlanda del Nord dentro: intuitivamente si avrebbe percezione delle conseguenze dirompenti sulla politica, non solo sull’economia, di Britannia.
Londra, peraltro, sa di non potersi permettere risposte rigide, perché accrescerebbe le spinte nazionaliste e indipendentiste e, soprattutto in Irlanda del Nord, potrebbe riaccendere la miccia del non ancora interamente sopito conflitto interreligioso e interetnico.
Non sorprendono i timori espressi dal premier irlandese Enda Kenny sul tipo di uscita proposto da May. Dopo gli accordi di pacificazione dell’Irlanda del nord di vent’anni fa, il confine effettivo tra irlandesi governati da Dublino e irlandesi sotto sovranità britannica in Irlanda del Nord, grazie al diritto comunitario, è stato cancellato. Mettere l’Irlanda del Nord fuori dal mercato comune oltre che dall’Ue, avverte Kenny, diventa un dato politico, non solo commerciale: con il confine ripristinato, lecito immaginare che i cattolici nord-irlandesi si sentano nuovamente in gabbia.
Fatto cenno alla politica, va detto che l’economia, nell’elaborazione della strategia di uscita, non è l’ultima delle questioni alle quali Theresa May dovrà guardare. Si è letto su Financial Times che la sterlina abbia raggiunto nei giorni scorsi il minimo da 168 anni. Si dirà: ottimo per i brits, esporteranno di più. Peccato che il Regno Unito importi la metà del cibo che mangia e quasi la metà dell’energia che consuma. Si tratta di beni irrinunciabili: pagarli con valuta forte o debole fa differenza su una bilancia finanziaria sotto cura da anni che è (sommando il debito di stato e famiglie) tra le più a rischio del mondo intero. Inoltre, come risultato può aversi la salita veloce dell’inflazione, che difatti gli analisti prevedono presto al 3,6% e che tra agosto e settembre è già quasi raddoppiata, da 0,6% a 1%.
E se queste, almeno in parte, possono essere previsioni smentibili dai prossimi mesi, ci sono i fatti che si vanno accumulando. Londra, grazie all’Ue, era diventata capitale terziaria, grassa di finanza e grandi studi legali d’affari. L’intero paese, grazie anche a una serie di accorgimenti fiscali, terra di accoglienza per multinazionali. Le due cose insieme avevano contribuito a far riprendere all’economia e alla società britanniche il cammino di benessere che aveva visto giorni difficili negli anni ’70 e ’80, con le grandi riconversioni dall’industria pesante e la rivoluzione tecnologica.
Si legge ora che centinaia di avvocati si spostano da Londra al foro di Dublino, e che broker, investitori, banchieri si guardano intorno e optano, nella presente stagione, per Francoforte e Parigi. Il Corriere della Sera cita il caso di due grandi banche francesi, Societé Génerale e Bnp Paribas, che hanno cessato di assumere su Londra.
Uscire dal mercato comune comporterebbe, tra le tante conseguenze, la ricostituzione di vetusti sistemi di pagamenti di dazi e tariffe, esborsi che gli operatori internazionali preferiranno evitarsi. Inoltre solo avvocati registrati in territorio Ue possono rappresentare clienti presso le corti di diritto europeo che richiedono tale titolo.
Nel contesto, la vicenda di Gina Miller illustra a quali conseguenze, anche di tipo istituzionale, possa portare l’avventurosa scelta del referendum britannico. Leggiamo che l’imprenditrice di origini guyanesi, ha chiesto all’Alta Corte di obbligare il parlamento a prendere posizione sul processo che condurrebbe il Regno Unito fuori dall’Ue, contestando al primo ministro il diritto di aprire trattative in marzo in base all’articolo 50 del trattato sull’Unione Europea senza mandato parlamentare.
Non si tratta della prima voce che abbia posto la necessità costituzionale del voto di Westminster, essendo il Regno Unito una democrazia parlamentare, non una democrazia referendaria. Miller, però, ha preso carta e penna, pagato fior fiore di costituzionalisti, e imboccato il percorso istituzionale che potrebbe mettere in crisi il progetto di May. Se l’Alta Corte dovesse darle ragione, purtroppo per gli amici britannici, si aprirebbero anche qui scenari poco confortanti, perché non è per niente certo, anzi!, che tra i rappresentanti del popolo la maggioranza sia sulle posizioni di May. E comunque emergerebbero sfaccettature e differenze che non gioverebbero certo a rendere forte l’eventuale negoziato britannico a Bruxelles. Il meno che si possa dire è che la matassa si aggroviglierebbe ancora di più.
Dirà il futuro quale piega gli eventi prenderanno e cosa gli europei delle isole britanniche da un lato, gli europei continentali dall’altra dovranno pagare, in termini politici ed economici, alla scelta che l’attuale primo ministro sta interpretando nel modo più duro possibile, forse anche per il carico di aggressività che al tutto conferisce il ministro degli esteri Boris Johnson.
E’ almeno curioso leggere le rivelazioni di Sunday Times sullo scritto che il corpulento Bobo aveva destinato alla rubrica di sindaco londinese sul Teleghraph a febbraio, prima di arruolarsi nel fronte antieuropeista. Definiva la permanenza britannica nell’Ue “manna per il mondo e per l’Europa”. Affermava sull’Ue che “… la parcella da pagare per farne parte è bassa rispetto a tutto quello che offre; perché voltargli le spalle?”. Un britannico di altri tempi, William Shakespeare, direbbe: “There is a tide in the affairs of men, Which, taken at the flood, leads on to fortune”. Fortune? Per la carriera di Bobo certamente. Per il resto, chi vivrà vedrà.