L’evento non era una sorpresa: era stato pianificato con cura da entrambe le parti e annunciato già qualche giorno fa. Nonostante ciò, osservare il primo comizio tenuto da Hillary Clinton e Bernie Sanders fa un certo effetto. Dopo una durissima campagna elettorale e una lunga ma fruttuosa negoziazione per definire il programma da approvare alla Convention, i due ex rivali Bernie e Hillary sono apparsi fianco a fianco a Portsmouth, in New Hampshire, unendo le forze in vista della grande guerra contro Donald Trump.
L’endorsement di Bernie si è fatto attendere e in seguito alla disfatta californiana del 7 giugno il senatore del Vermont ha dovuto resistere a potenti pressioni provenienti dal partito e dallo Studio Ovale, che volevano costringerlo ad anticipare l’appoggio alla ex First lady.
Ma la sua cocciutaggine non era priva di senso, come invece sostenevano molti commentatori con una punta di snobismo. Anzi, gli ha permesso di mantenere una notevole influenza nella stesura della piattaforma politica democratica, riportando alcune cruciali vittorie su molti temi cardine della propria campagna elettorale. Qualche esempio? Oltre a fissare il salario minimo a 15 dollari l’ora (una soglia voluta da Sanders durante le primarie), in materia di istruzione si è concordata l’abolizione della retta nelle università pubbliche per gli studenti con un reddito familiare inferiore a 125.000 dollari, mentre la Clinton si è resa disponibile a inserire una “public option” all’interno della riforma sanitaria di Obama, in modo da ampliare il più possibile l’assistenza medica ai cittadini. Su altri punti Sanders ha dovuto invece cedere. È il caso dell’accordo commerciale di libero scambio del Trans Pacific Partnership, che pur aspramente criticato da Hillary (anche durante il comizio di martedì), non è stato rigettato con chiarezza nel programma, come invece avrebbe voluto Bernie.
E così, sul palco di Portsmouth, la pace viene formalmente siglata nel segno di un’agenda progressista di cui altrimenti non sarebbe rimasta traccia.
Il primo a parlare è Bernie, che apre con un lungo ringraziamento a tutti coloro che lo hanno sostenuto, ricordando come la battaglia per trasformare l’America sia ancora all’inizio. “Quella rivoluzione continua” – afferma – “insieme continueremo a lottare per un governo che rappresenti tutti noi e non solo l’un percento. Un governo basato su principi di giustizia economica, sociale, razziale e ambientale”.
Poi, inevitabilmente, arriva l’ammissione della sconfitta: “La Segretaria di Stato Clinton ha vinto la nomination, e mi congratulo con lei. Sarà lei il nominato democratico alla presidenza. E intendo fare tutto ciò che posso per far sì che diventi il prossimo Presidente degli Stati Uniti”, aggiunge il senatore socialista, spiegando le ragioni che lo spingono all’endorsement.
Si percepisce, all’inizio, qualche malumore tra il pubblico, soprattutto tra i suoi sostenitori più accaniti, ma la platea si scalda quando il vecchio Bernie passa a elencare i punti del programma condivisi con Hillary, dall’aumento dei salari alla necessità di una sanità accessibile a tutti, dalla riforma del sistema giudiziario a quella del finanziamento della politica, passando per la protezione dei diritti civili e delle minoranze fino alla tutela dell’ambiente di fronte ai cambiamenti climatici.
In quasi tutto il suo intervento Bernie contrappone tali obiettivi al pericolo di una presidenza Trump, dipinta come la negazione assoluta degli ideali progressisti, in grado di far scivolare la nazione in una nuova spirale di intolleranza sociale e ineguaglianza economica.
Lo stile è quello a cui ci ha ormai abituato in questi mesi, fatto di affermazioni scandite con il suo rauco accento di Brooklyn, agitando il braccio destro con l’indice puntato, quasi per dare il ritmo a ogni frase. Quello di Portsmouth non è un Bernie entusiasta, ma consapevole di scegliere il male minore.
Prima di lasciare la parola alla Clinton, Sanders non nega infatti le differenze emerse durante le primarie, ma alla fine da un giudizio positivo sul lavoro di mediazione svolto negli ultimi mesi: “Non è un segreto il disaccordo tra me e Hillary Clinton su alcune questioni. Ciò è stato parte della campagna elettorale. È la democrazia”, ammette. Tuttavia “abbiamo prodotto la piattaforma politica più progressista della storia del partito democratico”.
Dopo il lungo discorso di Sanders è infine la volta di Hillary. La ex First lady inizia rievocando la sanguinosa scia di sangue che nell’ultima settimana ha travolto l’America: “Tutte le comunità traggono dei benefici sia dal rispettare la legge sia quando la legge le rispetta” afferma, mettendo in luce la necessità di proteggere i gruppi maggiormente colpiti dalle violenze della polizia (introducendo linee guida nazionali sull’uso della forza da parte degli agenti) e ribadendo al contempo il sostegno all’operato delle forze dell’ordine, costrette spesso ad agire in condizioni di grave pericolo.
Sui temi economici, poi, a sentirla parlare si capisce subito come la retorica sanderiana abbia influenzato il suo modo di comunicare e di elencare le priorità per il futuro. Il suo programma è ambizioso: “Nei miei primi 100 giorni da presidente, metteremo in campo il più grande piano di investimenti per creare nuovi posti di lavoro ben remunerati dai tempi della Seconda guerra mondiale” annuncia, sfoggiando un repertorio molto simile a quello usato da Sanders, fatto di stilettate a Wall Street, critiche al sistema di finanziamento dei partiti e richiami alla partecipazione dei giovani nel processo politico.
È proprio ai giovani, vicini da sempre alle posizioni del senatore del Vermont, che Hillary rivolge alla fine un accorato appello: “Lasciatemi chiudere dicendo questo. A tutti coloro che hanno dato il cuore e l’anima nella campagna elettorale del senatore Sanders, grazie. Grazie. […] Vi chiedo di continuare a lavorare con noi nelle settimane, nei mesi e sì, negli anni a venire. Ci sarà sempre un posto per voi quando sarò alla Casa Bianca”.
Insomma, come in una esilarante imitazione andata in onda qualche mese fa al Saturday Night Live, la ex First lady ha dismesso i panni della moderata per trasformarsi in una sorta di Bernie Sanders al femminile.
Almeno a parole. Alcuni sospettano infatti che si tratti di una mossa opportunista e che la virata a sinistra di Hillary sia un bluff. D’altronde, da decenni a questa parte, la piattaforma politica di partito è semplicemente una “dichiarazione generica d’intenti”, spesso e volentieri ignorata dopo le elezioni. In parte, guardando alla storia americana, queste osservazioni sono vere: basti pensare, tanto per dirne una, a temi come l’uguaglianza nelle retribuzioni tra uomini e donne, introdotta già nel programma di Harry Truman del 1948 e ancora oggi non pienamente attuata. Nondimeno, l’inclusione del movimento di Sanders nel partito ha un significato simbolico importante, e contribuirà negli anni a venire a cambiare il volto dei democratici, ben al di là dell’ipotetica presidenza Clinton.
Per ora, l’obiettivo immediato di Hillary è quello di unificare la base del partito e di portare dalla sua i sostenitori dell’ex avversario, strappandoli dalle grinfie di Trump. E per far ciò non può che usare un arsenale di sinistra. D’altronde, non è un caso che abbia puntato soprattutto sull’economia quando martedì ha attaccato The Donald, accusandolo di circondarsi degli stessi consiglieri economici responsabili della grande crisi del 2008. In sostanza, ha affermato con forza Hillary, dietro la patina populista Trump vorrebbe continuare le politiche economiche liberiste tipicamente repubblicane, fatte di tagli ai milionari, deregulation a favore della grande finanza e abbassamento dei salari.
Intendiamoci: nel corso della campagna elettorale Bernie ha mosso contro di lei le stesse identiche accuse e il comizio di martedì non basterà probabilmente a evitare manifestazioni di protesta a Philadelphia. Resta però il fatto che la candidata democratica ha individuato il proprio punto debole, e l’appoggio di Sanders le torna utilissimo per neutralizzare Trump.
Dal canto suo, il magnate gli ha dato del “venduto” su twitter, ma sul fronte interno è alle prese con una strisciante opposizione. Nei prossimi giorni renderà noto il nome del proprio running mate nella speranza di concludere definitivamente le polemiche con l’establishment del GOP alla Convention. Tra i nomi più gettonati ci sono quelli dell’ex capogruppo alla Camera Newt Gingrich e del governatore dell’Indiana Mike Pence, ultraconservatore vicino alle posizioni della destra tradizionalista. Se scegliesse Pence, Trump si allineerebbe al documento programmatico che dovrà essere votato a Cleveland (reso noto martedì), il quale ribadisce i principii cari alla destra evangelica, come l’opposizione al riconoscimento dei diritti civili delle coppie omosessuali, abbracciando al contempo alcune delle idee del magnate in tema di contrasto all’immigrazione e di politica estera. Le prossime ore segneranno dunque un passo fondamentale nella campagna elettorale del tycoon.
Dopo aver liquidato a fine giugno il suo campaign manager Corey Lewandowski, The Donald ha mutato atteggiamento solo a sprazzi, mantenendo la solita infuocata retorica che strizza l’occhio al risentimento razziale nei comizi ma mostrando anche un insolito equilibrio subito dopo le esplosioni di violenza che hanno recentemente percorso il paese. A poche ore dalla tragedia di Dallas, Trump ha rilasciato una breve dichiarazione in cui, pur presentandosi come il candidato dalla parte della “legge e dell’ordine”, non ha ignorato le gravi uccisioni avvenute in Louisiana e Minnesota, accennando alle gravi divisioni razziali che attraversano la nazione e facendo appello all’unità. Certo, nelle ore seguenti non poteva mancare un’accusa diretta a Obama, accusato di “vivere in un mondo immaginario” in cui non esistono divisioni e dipinto dal tycoon come un leader debole e incapace.
Durante la cerimonia per commemorare le vittime della strage di Dallas, il Presidente Barack Obama ha ribadito la sua fiducia nella capacità degli americani di restare uniti, nonostante i lutti e le violenze: “Sono qui per insistere nel dire che non siamo così divisi come sembriamo” ha detto Obama, richiamando la polizia a rispettare la rabbia degli afroamericani, trattati spesso come cittadini di serie B e soggetti a violenze ancora molto diffuse nel paese, ma avvertendo anche il movimento Black Lives Matter a non cadere nella trappola opposta, condannando in modo generalizzato le forze dell’ordine.
Toni ben diversi da quelli sfoggiati da alcuni importanti esponenti repubblicani (come Rudy Giuliani i quali hanno approfittato dei morti per gettare benzina sul fuoco, dimostrandosi in questa circostanza meno maturi del tanto criticato Trump.
Da quest’ultimo, in futuro dobbiamo aspettarci un sempre più frequente sdoppiamento tra il Trump dei comizi e il Trump “presidenziale”, come in dottor Jekyll e Mister Hyde.