L’alternativa per i votanti delle isole britanniche non è rosea: dopo aver tirato per decenni la corda delle continue eccezioni nel rapporto con i cugini del continente, sono costretti a dover scegliere tra lo scorno della convivenza necessaria ma senza più favori e “comprensioni” dai partner (l’ultima definitiva concessione l’ha ottenuta Cameron qualche mese fa ed evidentemente non è stata ritenuta sufficiente da molta parte dell’elettorato), o lo sventurato e solitario naufragio in Atlantico, con i costi finanziari, la recessione dell’economia nazionale, la lunga serie di guai che tutti gli osservatori economici hanno all’unanimità pronosticato. L’unica cosa positiva del referendum sull’Europa è che metterà fine alla troppa lunga telenovela di un rapporto che da parte londinese è stato soprattutto utilitaristico, con punte urticanti come il rebate del 1989, con l’indecente performance della signora Margaret Thatcher verso i colleghi governanti: “I want my money back!”. Gran signora, non c’è che dire.
Il patriota francese ed europeo, eroe della resistenza, Charles De Gaulle (rileggano gli inglesi il suo appello da radio Londra del 18 giugno 1940 per capire le utilità della solidarietà tra europei) aveva visto giusto nel bloccare per anni la domanda britannica di adesione, tanto più che Londra stava contemporaneamente e scorrettamente giocando anche sul tavolo Efta, European Free Trade Association. Solo che il generale aveva sbagliato le ragioni del veto: il Regno Unito non sarebbe stato “il cavallo di Troia degli americani”, ma il bastian contrario di ogni e qualunque tentativo di far avanzare il progetto federale, zavorrando la vita delle istituzioni dei suoi se e ma ad ogni possibile occasione: buon ultima del lunghissimo elenco, quella sugli immigrati, che ha ingrossato le fila degli adepti di Nigel Farage. Con un paradosso estremo, si potrebbe affermare che non c’è nessun Brexit da attendere o su cui votare: Londra non può uscire pienamente dalla logica delle istituzioni comuni perché non vi è mai entrata pienamente.
Il che ha costituito una scelta miope e autolesionista. Come sosteneva Churchill, almeno nella fase iniziale della sua lunga e controversa carriera europeista, il Regno Unito avrebbe potuto e dovuto assumere il ruolo di leader dei processi di integrazione, avendo tutti i titoli per farlo. Scelse invece, entrando nel 1973 nella Comunità, di stare al margine dell’inner circle di chi conta, rispettando lo spazio conquistato dagli anni ’50, dall’asse franco-tedesco, e optando per lo snervante e continuo negoziato finalizzato a ottenere, via opt out, risorse finanziarie e privilegi. Un vero peccato: per l’Europa, ma anche per i cittadini di sua maestà britannica. Il caso euro è illuminante: con la sterlina forte quanto e a volte più del marco tedesco, Londra, con Francoforte, avrebbe potuto costruire un potere finanziario straordinario nel segno dell’Europa. Ha preferito anche lì giocare la sua carta nazionale: se ora esce dall’Europa come conceranno i mercati l’amata sterlina? Intanto l’euro continua ad essere, nonostante tutti i problemi nei quali è immerso, una success story comune a molti dei paesi membri, garantiti dal lavoro della Bce di Mario Draghi.
Ci si può giustamente chiedere perché Londra abbia scelto caparbiamente di portare avanti quel tipo di politica. Probabilmente perché non ha mai voluto operare per l’Europa politica, volendo al tempo stesso lucrare quanto possibile dall’Europa commerciale. Un gioco al rialzo che, alla lunga, può ritorcersi contro chi lo pratica: ed è quello che può ora succedere, con i poll che alla vigilia del voto danno neck and neck gli schieramenti del remain e del leave.
E’ mancato il rapporto solidale degli ideali, quello che i francesi chiamano “del destino”. Londra non ha mai inteso la Federazione europea come il suo destino possibile, anzi in molte fasi l’ha vissuta (ad esempio quando circolavano le copie della Costituzione europea e si costruiva il concetto di cittadinanza europea) come un incubo.
Si può obiettare che al referendum del 1975 sulla permanenza nell’allora Comunità, si era favorevolmente espresso il 67% dei votanti britannici, seguendo Harold Wilson e la linea condivisa dai leader laburista e conservatore, nonostante molti membri del governo laburista avessero fatto campagna per l’uscita. Si può rimarcare che contee e territori del Regno si schierarono compatti per l’Europa, con le sole marginali eccezioni di Shetland e Western Islands. Si può rispondere alla giusta obiezione, che quella confortevole vittoria europeista non riguardasse il percorso successivo, quello, più politico, di Maastricht, Unione economica e monetaria, euro, costituzione, fiscal compact, e quant’altro, che Londra avrebbe sempre fieramente avversato, volendo che le decisioni che la riguardavano fossero “prese a Westminster non a Bruxelles”, come si è letto mille volte sulla stampa d’oltre Manica e come tanti elettori hanno dichiarato in questi giorni pre-voto.
Spiace scriverlo, pensando a tanti sinceri europeisti britannici, ma in troppe occasioni si è avuta l’impressione che una parte rilevante dei politici isolani remasse scientemente contro le istituzioni comuni. Si pensi a cosa accadde dopo la caduta del comunismo nell’est. Nelle istituzioni di Bruxelles si sviluppò un onesto dibattito sulle responsabilità dell’Unione. Ci si chiese se occorresse favorire la profondità rispetto all’estensione: in altre parole se occorresse concentrarsi sul rafforzamento di quel poco o tanto che si era costruito, o rischiare di sciupare tutto allargando i confini e facendo entrare subito paesi che venivano da tutt’altro mondo politico ed economico. Scientemente Londra, in sintonia con Romano Prodi, che la diplomazia britannica aveva portato al vertice della Commissione, spinse all’affrettato e scriteriato allargamento che avrebbe bloccato per decadi ogni tentativo di approfondimento. La storia ringrazierà forse quell’Europa per il sacrificio fatto nel segno dell’espansione della democrazia ad est e della difesa di tanti popoli dal recupero russo (si guardi a Georgia e Ucraina). Washington, anch’essa schierata per l’allargamento immediato, ha espresso in più occasioni la soddisfazione per la “mission accomplished”. Ma intanto siamo qui a leccarci le ferite dell’approfondimento mancato, e a guardare i britannici che, emuli dell’Amleto shakespeariano, si chiedono se essere o non essere (europei).
E’ evidente che si può essere degli ottimi europei, pur non appartenendo all’Unione. Per dire, al Consiglio d’Europa, istituzione geneticamente figlia della visione di Europa propria della cultura politica prevalente in Gran Bretagna, risultano 47 paesi e tutti giustamente rivendicano di appartenere al vecchio continente. Ma le istituzioni di Strasburgo non ambiscono neppure al livello confederale, quello, per capirci, che Abraham Lincoln combatté armi in pugno, tanto gli sembrava debole rispetto alla sua visione federalista.
Davvero Londra può ad occidente, come da sempre fa Mosca ad oriente, rappresentarsi un futuro ai margini della storia “politica” dell’Europa? E’ davvero condannata a optare definitivamente per una sola delle sue due facce geopolitiche e geoeconomiche, l’atlantica e la continentale? Almeno Mosca insegue il sogno imperiale di riprendersi pezzi di Asia Centrale e di Caucaso, anche per reggere l’urto prossimo venturo cinese. Londra non ha più sogni da inseguire e non ha nessun potenziale nemico alle frontiere: potrebbe essere leader in Europa, possibile che scelga di chiudersi in un irrilevante isolamento o di costituirsi in una sorta di cinquantunesima stella statunitense de facto? Troppi sono i legami economici e commerciali, di pensiero politico ed economico, di politica e di sicurezza, culturali e artistici, che legano i britannici al continente. Impensabile una separazione che non conduca a scenari drammatici nella stessa Gran Bretagna.
Donald Tusk, presidente del Consiglio Europeo, a tre giorni dal voto, ha rivolto ai britannici l’accorato appello a non lasciare l’Unione. Al tempo stesso ha rilevato come occorra lo “sguardo severo sul futuro dell’Unione” per i limiti evidenti che sta mostrando rispetto alle sfide. Curioso che nessuno ricordi che, dopo la svolta nei trattati (Lisbona) con la crescita del potere degli stati rispetto alle istituzioni sovranazionali (Commissione europea, ad esempio), l’Unione realizza ciò che i governi dei paesi membri le consente, ovvero pochino, specie per lo scarso europeismo di tutti i paesi post-comunisti e di molti nordici, Gran Bretagna inclusa. Quindi ben venga l’autocritica, ma è di soluzioni che l’Unione ha bisogno, e le soluzioni, trattati alla mano, vengono, o non, dagli stati membri. Tra le soluzioni non è annoverabile l’uscita di uno stato: oggi il Regno Unito, domani magari un altro. Questa, in termini politici, è sempre una sconfitta, e sconfitta per tutti, inutile girarci intorno anche se, nel lungo periodo, la sconfitta, come capita nella vita delle persone, può condurre a più chiarezza e condivisione di obiettivi.
Il nemico dell’integrazione europea resta il nazionalismo. La triste riprova l’ha data il folle che ha assassinato Jo Cox al grido di Britain First! L’Europa odierna, costruita dal basso, per consenso popolare e non per imposizione di questo o quel sovrano potere, è uno scandalo per le politiche nazionali di potenza, da sempre basate sui muscoli e sulla rapina. Ovvio che i nazionalismi tendano ad ostacolarla in ogni modo, e così fanno, coerentemente i nazionalisti britannici, scansando una serie di fatti, sui quali si spera gli elettori abbiano invece riflettuto. Quest’Europa ha ricevuto il premio Nobel per la pace. Giorni fa, nel Global Peace Index 2016 dell’ Institute for Economics & Peace, ha piazzato otto sue nazioni nei primi undici posti. Ha un’ottima moneta, un livello di libertà civili ed economiche invidiabile, benessere diffuso. E’ tuttora il primo commerciante al mondo.
Detto questo è certamente in preda ad una sorta di crisi di senilità, come ha detto il papa, e non riesce più a credere in se stessa e nel suo futuro. Ma questo è colpa della politica, dei ceti dirigenti che si avventano demagogicamente sul nazionalismo di ritorno, quello che per un millennio è stato la rovina del continente e che, attraverso i movimenti cosiddetti populisti, si presenta oggi come la vera grande minaccia del futuro prossimo. Nigel Farage e il suo UKIP ne sono la dimostrazione, per quanto riguarda il Regno Unito, battendo come in altri paesi, la grancassa della minaccia data da immigrati e alieni.
Condivisibile il commento proposto, su Repubblica online, dall’immigrata italiana in Inghilterra Ivana Bartoletti, impiegata del sistema sanitario nazionale e attivista del Labour: “Il dibattito sull’Europa è un tutto sull’immigrazione; eppure se ti ammali è più facile che l’immigrato sia il tuo medico curante e non il malato nel letto a fianco! La Gran Bretagna è cresciuta economicamente grazie all’immigrazione; è spiacevole pensare che si voglia condannare al declino e trascini l’Europa verso altre spinte indipendentiste”.