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Perché i giovani amano i genitori ma votano Bernie Sanders

Analisi dei dati Pew e Istat che illustrano la situazione giovanile americana e italiana, quest'ultima senza sfoghi

Luigi TroianibyLuigi Troiani
giovani bernie sanders

Un comizio di Bernie Sanders (Ph. Flickr)

Time: 6 mins read

Quando, fra qualche tempo, si ragionerà sull’inaspettato successo del “socialista” Bernie Sanders nella campagna per le presidenziali 2016, probabilmente verrà sottolineata l’irresistibile adesione espressa dai giovani democratici al suo programma. Si tratta di una spia del malessere che sta cogliendo ovunque i giovani adulti nati poco prima del millennio, costretti a pagare in prima persona la folle ingiustizia (l’1% più ricco possiede più del restante 99%) del mondo nel quale si sono trovati a crescere. Può sorprendere che ciò accada anche all’interno del paese campione del capitalismo, trovando espressione in una società che, a parte le due vampate anti Vietnam e Occupy Wall Street, non ha mai strutturato generazioni giovanili politicizzate in senso socialista o progressista. Evidentemente qualche nodo causato dalla globalizzazione finanziaria, sta venendo al pettine della storia anche negli Stati Uniti, e il movimento Occupy ha gettato semi che fruttano consenso politico giovanile al radicalismo del settantacinquenne Sanders.

Guardando alla condizione giovanile negli Stati Uniti, non è che fossero mancati segnali di allarme, su come i giovani potessero in qualche modo radicalizzarsi. I sintomi più evidenti vennero, nella stagione politica recente, a destra con il Tea Party, a sinistra con Occupy Wall Street. Ma nessuno avrebbe immaginato l’evoluzione che sta facendo volare Sanders sugli attuali livelli di consenso. Certamente non Hillary e Bill Clinton che hanno impostato la campagna democratica senza prevedere il consistente spazio politico di tipo “nuovo” che i giovani stanno ora donando a Sanders.

Eppure il crescente malessere della fascia di giovani adulti statunitensi era noto, essendo stato ben colto in una ricerca pubblicata da Pew alla fine di luglio dello scorso anno. Il dato essenziale che ne scaturiva era che, benché la disoccupazione, tra i giovani adulti dai 18 ai 34 anni, stesse avvicinandosi ai livelli pre-crisi (7,7% contro 6,2% del 2007, ultimo anno prima della grande recessione), la loro capacità di vivere in modo indipendente, ovvero fuori dalla casa di uno o ambedue i genitori e/o con reddito proprio sufficiente, era scesa dal 71% al 67%. Tradotto in soldoni, un giovane adulto statunitense su tre è costretto a vivere a casa di mamma e/o papà, non può permettersi un futuro certo e una famiglia. Scandagliando nei risultati di Pew Research Center, si scopriva dell’altro. Nel periodo esaminato la somma della popolazione nella fascia d’età considerata era cresciuta di circa 3 milioni, ma il numero di persone che, in quella fascia d’età, viveva in modo indipendente (senza includere chi, tra 18 e 24 anni era in college) scendeva da 42,7 milioni nel 2007 a 42,2  nel 2015. Accadeva, benché la retribuzione salariale media settimanale, nella fascia d’età considerata, crescesse da $547 del 2012 a $574 nel primo quadrimestre 2015. Altro dato interessante veniva dalla tendenza al rientro sotto le protettive mura domestiche di tutta la popolazione giovanile, senza significative segmentazioni: ad esempio, il fatto che chi esce dal college trovi più lavoro e lavoro meglio pagato non spostava nulla (indipendente era l’86% degli ex college tra 25 e 34 anni, contro l’88% del 2010, con la discesa di due punti. identica a quella di ogni altro segmento sociale della stessa fascia d’età).

Ancora: dopo il picco del 2012 delle iscrizioni ai college (uno dei modi di rispondere alla crisi era stato il dotarsi di più apprendimento), nel 2014 si registrava la caduta di due punti percentuali: solo il 35% dei giovani tra 18 e 24 anni sceglieva il college. Questo, nonostante la consapevolezza diffusa delle migliori opportunità di lavoro offerte a chi esce dal college: sul declino, evidentemente, influiva la pesantezza delle rette, e dei debiti che spesso vengono assunti dagli studenti e dalle famiglie per farvi fronte.

Il sintetico richiamo ad alcuni numeri della  ricerca, per evidenziare che ben un terzo dei giovani adulti statunitensi, a prescindere da cultura e genere, nell’anno pre-elettorale, doveva vedersela con insicurezza e scarsità: sempre e comunque rispetto alle risorse finanziarie autonome, spesso anche rispetto alle risorse psicologiche necessarie a battersi con le sfide dell’esistenza. Gli altri due terzi, in situazione migliore, convivevano con la situazione meno fortunata dei coetanei, spesso amici o membri della stessa comunità. Non dimentichiamo che quella fascia d’età è anche strutturalmente frullata dentro la vastissima virtualità del social networking, ovvero nella comunità allargata dove gioie e i dolori sono condivisi mentre si fa lo struscio nella “vasca” collettiva.

Tutto quest’insieme, e altro ancora, ha amalgamato il bacino di malessere, in particolare quello espresso dai più colti e sensibilizzati dei giovani, nel quale ha pescato consenso Sanders. Senza nulla togliere alla capacità, tutta giovanile, di guardare anche oltre la propria situazione individuale, elevandosi nel grande spazio dell’idealismo, dove il malessere proprio si mescola con quello più generale delle ingiustizie e dannazioni apparentemente immodificabili: armamenti nucleari e batteriologici, riscaldamento climatico, ingiustizia sociale ed economica, guerre e conflitti. L’idealismo è radicale per definizione.

Se ci si sposta in Italia, dove il malessere giovanile ha ben altre dimensioni e virulenza, non si può che partire dai dati appena forniti dal Rapporto annuale dell’Istituto centrale di statistica, Istat. Il primo, tragico,  è che i grandi sono stati così capaci nel rendere inospitale il paese, che quasi la metà dei loro figli vorrebbe fuggirne. Il dato generazionale vince su differenze di altro tipo, come etnia genere religione condizione sociale: meno di quattro punti distanziano il desiderio di fuga dei figli di immigrati (46,5% vuole andarsene) da quello dei figli di italiani (42,6%).

Le disuguaglianze crescenti sono tra le responsabili del malessere: l’ascensore sociale si è rotto e non c’è governo che lo ripari, per cui il futuro appartiene a chi è figlio di papà (con l’eguaglianza tra i generi, anche figlio di mammà va benissimo). Il paese dei pazzi masochisti fa crescere l’occupazione solo tra gli ultracinquantenni (sono nella categoria e devo con evidenza vergognarmene), mentre i trentenni non hanno lavoro, o lo hanno precario e dequalificato (ed è qui soprattutto la radice dei dati che seguono).

Ci si sposa tardi e non si fanno figli (1,35 per donna). Peggio che negli Stati Uniti il numero degli sbracati sul divano di casa e degli occhi dilatati dal rodeo tra i display di social network e play station. Nel paese dove le persone con meno di 24 anni non arrivano a ¼ della popolazione (quota dimezzata in novant’anni), più di sei giovani adulti su dieci (62,5% dei 18-34 anni) vivono con i genitori, percentuale praticamente doppia che negli Stati Uniti. I maschi bamboccioni sono in numero nettamente superiore alle femmine (68% contro 56,9%), confermando il declino dell’homo latinus verificabile anche da indici come l’abbandono scolastico e universitario e i ripetuti episodi di violenza contro le partner. La media europea è 48,1%, ben 14,4 punti di distanza! Guardando al segmento più basso di età, i numeri ovviamente crescono: il 70,1% dei giovani adulti tra 25 e 29 anni e il 54,7% delle coetanee vivono in famiglia (vent’anni fa, rispettivamente 62,8% e 39, 8%). Le ragazze, studiando di più e non maritandosi presto, hanno fortemente accresciuto la loro quota relativa. Come evidenziato, il vero problema è il lavoro che manca. Lavora, spesso in condizioni precarie e sottoqualificate, solo il 39,2% dei giovani adulti (ad inizio crisi andava già malissimo, ma almeno a lavorare era la metà degli italiani in quella fascia di età) con l’abbassamento anche della speranza occupazionale nei laureati (8 laureati su 10 di 30-34 anni dieci anni fa trovavano lavoro, ora 7,4).

Questo il malessere dei nostri giovani, che arriva sino al desiderio di tagliare il cordone ombelicale con il paese dei padri. Mancando da noi un Sanders, a chi guardano i nostri giovani adulti per cambiare le cose? Se più di quattro su dieci non vogliono saperne di restare al di qua delle Alpi, è ovvio che disertino la politica, riversando online, nel privato, nel volontariato, il loro bisogno di “socialità”. Accade che in troppi rischino di diventare i nostri “albanesi”. Negli anni novanta gli albanesi veri guardavano a bocca aperta e occhi lucidi alla tv italiana gambe e lustrini di Raffaella Carrà e sognavano di attraversare il Mediterraneo per sbarcare nell’”Ammerica” di Brindisi. Finì come sappiamo. Tanti nostri figli e nipoti delusi, via social network si sono incamminati per il sentiero “albanese”, alienandosi su altre terre e nazioni, immaginate in modo acritico meno ingiuste, più disponibili ad offrire una chance di vita dignitosa basata sul merito.

E’ vero che in Italia continuano a crescere le distanze tra troppo ricchi e gli altri, ma accade anche altrove. E’ vero che tra i minori la povertà è salita dall’11,7% nel 1997 al 20% quest’anno, mentre fra gli anziani si è quasi dimezzata, essendo attualmente sotto il 10%. Ma non è che altrove si scherzi con la povertà minorile. Istat racconta anche di un’interessante ed energica imprenditoria giovanile che fa innovazione, dove l’iniziativa individuale giovanile si batte con energia contro ogni ostacolo e conquista anche mercati esteri. Peccato che spesso non possa andare oltre l’auto-occupazione personale e familiare: essendo di dimensioni microscopiche non è in grado di fornire lavoro. Dov’è la banca che un tempo dava soldi a una buona idea perché creasse impresa e lavoro?

Il Sanders americano difficilmente ce la farà, e alla sua età non gli verrà data un’altra possibilità: le sue idee resteranno comunque in circolazione e il partito Democratico si ritroverà un po’ più “socialista”, il che non guasterà in una nazione che continuerà ancora a lungo a influenzare i destini del mondo. In Italia bisogna puntare sui ragazzi impegnati nel volontariato, nella ricerca, nell’imprenditoria. Se riuscissero a trasferire la loro capacità di spinta nella politica, darebbero alla loro generazione un futuro che altrimenti non avrà.

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Luigi Troiani

Luigi Troiani

Insegno Relazioni Internazionali e Storia e Politiche UE all’Angelicum di Roma. Coordino le ricerche e gli studi della Fondazione Bruno Buozzi. Tra i promotori di Aiae, Association of Italian American Educators, ho dato vita al suo “Programma Ponte” del quale sono stato per 15 anni direttore scientifico. Ho pubblicato saggi e libri in Italia, tra gli altri editori con Il Mulino e Franco Angeli, e in America con l’editore Forum Italicum a Stony Brook. Per la rivista Forum Italicum ho curato il numero monografico del maggio 2020, dedicato alla “letteratura italiana di ispirazione socialista”. Nel 2018 ho pubblicato, con l’Ornitorinco Edizioni, “Esperienze costituzionali in Europa e Stati Uniti” (a cura). Presso lo stesso editore sono in uscita, a mia firma, “La Diplomazia dell’Arroganza” e “Il cimento dell’armonizzazione”. La foto mi mostra nella maturità. Questa non sempre è indizio di saggezza. È però vero che l’accumulo di decenni di studi ed esperienze aiuta a capire e selezionare (S. J. Lec: “Per chi invecchia, le poche cose importanti diventano pochissime”), così da meglio cercare un mondo migliore (A. Einstein: “Un uomo invecchia quando in lui i rimpianti superano i sogni”).

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