Nel luglio 2013 Mario Mori e Mauro Obinu, ex Generale l’uno ed ex Colonnello dei Carabinieri l’altro, furono assolti in primo grado dall’accusa di aver favorito il noto mafioso Bernardo Provenzano, omettendone dolosamente la cattura. Giovedì, 19 Maggio 2016, la Corte di Appello di Palermo ha confermato l’assoluzione.
Riordiniamo brevemente il contesto.
Nel Febbraio 2006, ancora Mori e Sergio De Caprio, anch’egli Colonnello dei Carabinieri, (noto pure come Capitano Ultimo, nome in codice assunto nell’operazione che condusse alla cattura di Salvatore Riina), erano stati assolti dall’accusa di avere favorito Riina: dopo averlo catturato, avrebbero omesso utili comunicazioni, concernenti la perquisizione della sua casa-rifugio.
Nel gennaio 2010, dopo un processo passato per cinque sentenze e durato 17 anni, Calogero Mannino viene assolto dall’accusa di concorso eventuale in associazione mafiosa (“esterno”, nel lessico di questi anni antigiuridici). Il 4 Novembre 2015, Mannino, nel giudizio abbreviato che riguardava solo lui, viene assolto anche nel processo sulla c.d. trattativa stato-mafia. Mannino è stato sotto indagine, o processo, ininterrottamente per ventitrè anni.
Ininterrottamente Mori lo è da circa venti. Precisato per sommi capi il contesto, si può trarre qualche spunto di riflessione.
La Pubblica Accusa che, in questo secondo processo a carico di Mori, aveva chiesto la condanna degli imputati, era rappresentata dal Procuratore Generale Roberto Scarpinato e dal Suo Collega, il Dott. Luigi Patronaggio.
Due notazioni. La prima. Il dott. Patronaggio fu il magistrato di turno che, in rappresentanza della Procura della Repubblica di Palermo, intervenne sul luogo della cattura di Riina. In relazione alla vicenda della c.d. mancata perquisizione della casa-rifugio di Riina, venne assunto come testimone nel processo che vedeva imputati Mori e De Caprio, poi assolti, dove dichiarò: “Fu il procuratore Caselli a fermare il blitz che doveva essere effettuato il 15 gennaio ’93 nel residence di via Bernini, dal quale era stato visto uscire Riina. Fui avvisato da Caselli, che aveva ricevuto una telefonata dai carabinieri del Ros, con i quali era in contatto diretto. Caselli ha gestito tutta l’operazione. Solo lui aveva rapporti con Mori e De Caprio e tutti quelli del Ros” .
Come si ricorderà, infatti, lo stesso giorno della cattura di Riina, il dott. Giancarlo Caselli si era insediato alla direzione della Procura di Palermo. E anch’egli venne poi assunto come testimone nello stesso processo a carico di Mori e Obinu che, secondo Patronaggio, avevano agito “in diretto contatto” con Caselli. Il quale, però, dichiarò di non avere “elementi per esprimere un giudizio” sulla questione. Benchè fossero trascorsi dodici anni dal fatto. Probabilmente anche per questo, il 20 Febbraio 2005, il giornalista Giuseppe D’Avanzo, commentando questa testimonianza, scrisse che Caselli poteva fare varie mosse, ma che “la sola che gli è interdetta dalla decenza è di vestire i panni dell’osservatore attento e distaccato”.
Seconda notazione. Il Procuratore Scarpinato, anche di recente, ha esposto un’interpretazione della funzione giudiziaria penale volta ad accentuarne compiti nuovi. In particolare, ha sostenuto che la storia d’Italia, per secolare andazzo (solo la nostra: il resto del mondo, tutto un avvicendarsi di Eden, a quanto pare), è una storia di “servi e padroni”, e che la Costituzione Repubblicana, con l’art 3, ha voluto introdurre il principio di c.d. uguaglianza “sostanziale”.
Bisogna fare attenzione, da qui in poi. Il principio richiamato, si fa osservare, è principio giuridico immediatamente cogente (cioè “operativo”, come comunemente si dice). Gli “ostacoli di ordine economico e sociale” che, secondo quella norma, “è compito della Repubblica rimuovere”, possono pure essere costituiti da leggi. Ed anzi, tipicamente lo sono. Infatti, il dott. Scarpinato precisa che è dovere del giudice ordinario “processare la legge”, quando la si ritiene in conflitto con l’art. 3. Il quale tuttavia, si sarà notato, è tanto generale in termini politici, quanto generico in termini strettamente giuridici. A questo punto, il dott. Scarpinato propone la sua conclusione: “La magistratura italiana quindi è una ‘magistratura costituzionale’ e, in quanto tale, la sua fedeltà alla legge costituzionale è prioritaria rispetto a legge ordinaria. (ibidem).
In questo modo si integra, cioè si disintegra, il precetto, anch’esso costituzionale, per cui “il giudice è soggetto soltanto alla legge” (art. 101 della Costituzione). Legge “assoggettante”, ovviamente, è la legge ordinaria, non quella costituzionale. Affermare che la “fedeltà” o “sottoposizione” della magistratura italiana vale solo per la Costituzione e non per la legge ordinaria, equivale a rivendicare uno status inedito per la Magistratura: di formale e stabile sovraordinazione al Parlamento, che emana le leggi, e al Governo, che agisce sulla fiducia da quello espressa. Si badi, ancora, che il Parlamento è la Sede della Rappresentanza popolare; e che la Sovranità, art. 1., “appartiene al Popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Vale a dire, tramite il Parlamento.
Tale recente rivendicazione, cioè, ripetiamolo, la formale sovraordinazione della Magistratura al Parlamento, e all’atto tipico che ne compendia l’esistenza, la legge ordinaria, si inserisce in una lunga vicenda teorico-interpretativa, che ci riporta ai noti processi “politico-mafiosi” con cui abbiamo cominciato. E’ la nota interpretazione per cui, essendo “la politica il nerbo della potenza mafiosa”, come scriveva Scarpinato, insieme ad Antonio Ingroia all’inizio del 2003, “bisogna “sospendere autoritativamente la democrazia elettiva aritmetica”, se del caso, anche “contro la stessa volontà della maggioranza” (Micromega, 2003/1). La sospensione autoritativa della “democrazia elettiva aritmetica”, di tredici anni fa, precorre la magistratura che avrebbe, da oggi in poi, un vincolo di fedeltà “prioritario” unicamente verso la norma costituzionale. L’azione interpretativa annunciata nel 2003, per cui il giudice sarebbe potuto andare anche “contro la stessa volontà della maggioranza”, anticipa la fine della sottoposizione del “giudice soltanto alla legge” ordinaria, affermata nel 2016. Chiudiamo questa seconda notazione.
Ora, c’è un ulteriore problema, in materia penale. Qual è, infatti, l’oggetto di una così “libera” interpretazione del giudice penale o del pubblico ministero? La norma che prevede un reato. Cosa può succedere se, spingendo troppo sul tasto suggestivo e, spesso inafferrabile, della “uguaglianza sostanziale”, cioè economica e sociale, si agisce sul concreto terreno delle indagini e dei processi? Dove può condurre l’autoattribuzione, ad un corpo ristretto di interpreti, ad un’avanguardia, di compiti speciali?
Ribadito che sulla “specialità”, o, se preferite, non ordinarietà di una Magistratura che si vuole affrancata dal vincolo della Legge “ordinaria”, non è il caso di indugiare oltre, diamo ora uno sguardo al c.d. passato. Che pare suggerire un orientamento, a chi si sentisse smarrito da quelle domande.
Una “macchina speciale di repressione” fu l’archetipo moderno di ogni emergenza giudiziaria. Quale “macchina”? La troviamo descritta in un celebre saggio di Lenin (Stato e Rivoluzione, Cap. 5 par. 2, scritto nel 1917 e pubblicato nel 1918,). Quest’opera, nel tempo contemporaneo, è la prima in cui si espone la necessità di coniugare un’istituzione giuridico-repressiva, tarata sull’individuo, all’emancipazione economica su larga scala; inoltre, essa incarna il pericolo comunque insito nella “macchina repressiva” che, una volta posta, seppur solo, inizialmente, per poche unità, tende ad un’espansione autoindotta. Il concetto vì è ritenuto cosi determinante, da essere ripetuto sette volte. Sarebbe servita, “la macchina”, solo momentaneamente: per la “transizione” alla “vera democrazia”, quella che elimina (rimuove?) “la disuguaglianza di fatto”. Queste disuguaglianze “di fatto” sono quelle imposte dalla società di “classe”, prosegue. Eliminate la classe “degli sfruttatori”, la borghesia, eliminate le disuguaglianze. Così, Lenin e la sua “macchina speciale di repressione”.
Certe combinazioni, però, tendono a sfuggire di mano. Avvalersi di un ordigno repressivo per promuovere il bene politico, è sperimentazione politico-istituzionale di indimenticate e inevitabili aberrazioni.
O forse dimenticate? Nel luglio 2013, Caselli spiega: “Per realizzare i loro affari, i mafiosi hanno bisogno di esperti: ragionieri, commercialisti, immobiliaristi, operatori finanziari e bancari, notai, avvocati, politici, amministratori, uomini delle istituzioni (magistrati compresi, purtroppo): la cosiddetta borghesia mafiosa. Si fanno così sempre ‘più fitti gli intrecci con pezzi del mondo politico e dei ‘colletti bianchi’”.
“La macchina speciale di repressione”. Il suo uso giusto il tempo della “transizione” alla “democrazia di fatto”. L’eliminazione della “classe “degli oppressori”. La “rimozione” degli ostacoli di ordine economico e sociale. “La politica il nerbo della potenza mafiosa”. “La cosiddetta borghesia mafiosa”. La “eliminazione” della società di classe. Le avanguardie. I magistrati “costituzionali”, liberi dal vincolo della legge ordinaria. Stiamo scherzando col fuoco.
Assoluzioni, fra le altre, come quest’ultima di Mori, sono certo un momentaneo lenimento per il diretto interessato. Ma, nei termini in cui maturano (sempre precarie e sempre dileggiate dai manganellatori della tastiera), e nei tempi in cui maturano (l’eterno inquisitorio che, in realtà, non libera mai dalla morsa), costituiscono la dimostrazione più compiuta della loro vanità. Le difese tecniche hanno fatto quello che hanno potuto, e non si può certo fargliene carico: ma sono solo testimoni di un martirio: dell’imputato e della coscienza pubblica: vessata da una visione pseudostoricistica, calata sulle fattispecie incriminatrici con lo stesso affanno stizzito di un cuoco che non vede montare la maionese; e non si ferma e continua a tormentare inutilmente le uova e l’olio, questi traditori.
Un passo dopo l’altro, si sta fecondando una tirannia che, come ogni tirannia, potrà vivere e prosperare coram populo: sui moltissimi ottusi che non la vedono, lasciando fare ai molti ruffiani che la esaltano, perchè, alla fine del “processo”, pochi ne godano.
Il punto è che una tirannia giudiziaria non può mai essere “settoriale”. Se la giurisdizione è arbitraria, la democrazia non può esistere. Scriviamolo: a futura memoria, e per quella di Marco Pannella.