Il Tribunale di Bari ha depositato le motivazioni della sentenza con cui, lo scorso 12 Novembre, Giampaolo Tarantini e altri imputati sono stati condannati per vari reati in materia di prostituzione. La vicenda processuale, è noto, ebbe massimo risalto durante le indagini preliminari, come “l’inchiesta delle escort”: di cui il principale beneficiario era Silvio Berlusconi.
Come sempre accade, e puntualmente, colpiti i bersagli, consumato il character assassination, si passa ad altro. Ogni tanto, però, si recupera alla pubblica osservazione l’incartamento sepolto: o per trarne nuovi spunti lapidatori, o per rincalzare un nuovo “piano d’indagine”. E il caso della c.d. sentenza Tarantini.
Vi si può leggere che le cene, nel corso delle quali si svolgeva la prostituzione delittuosa, erano “poco eleganti”. Inoltre, le ragazze erano “avvenenti, provocanti, disinvolte, spregiudicate, disinibite”; e “soprattutto, giovanissime” e volevano “dare una svolta alle loro (talvolta a dir poco modeste) vite”. Ed erano pure “animate dalla speranza (…) di essere ‘elette’ per trascorrere la notte in sua compagnia”. Aggiunge la sentenza che il complesso dei crimini erotici mirava a “soddisfarne anche le più perverse pulsioni erotiche” e, come ad aggravare la colpa, infine si ritiene di precisare “addirittura attraverso la consumazione di rapporti saffici”. Ricordo che la particelle pronominale -“soddisfarne”- vale qui a rilevare l’immanenza di Silvio Berlusconi: casomai qualcuno, ovviamente distratto o tendenzioso, sentisse aleggiare cupezze trascendenti.
Ora il punto non è la libertà di formulare, in generale, una riprovazione morale: su questa materia, come su ogni altra. Il “velen dell’argomento”, risiede nell’improprietà della Sede.
In primo luogo, sono valutazioni espresse da un giudice penale nell’esercizio delle proprie funzioni; in secondo luogo, sono valutazioni espresse verso una persona rimasta estranea al processo penale che vi ha dato luogo, e che, pertanto, non ha potuto interloquirvi; in terzo luogo, sono valutazioni prive di ogni necessità argomentativa rispetto alla spiegazione giuridico-penale (o motivazione) della condanna.
Giacchè, che le cene fossero molto o poco “eleganti”, non aggiunge nè toglie nulla al giudizio sulla condotta degli imputati; e, meno che meno, sapere che, secondo il Tribunale, abbiano avuto spazio “pulsioni erotiche” più o meno “perverse”, e che un grado elevato di “perversità” sarebbe esemplificato dal carattere lesbico o “saffico” dei “rapporti”. Se la perversione avesse dato corpo ad altri reati (lesioni, percosse, età impubere, uso e abuso di sostanze stupefacenti, ecc.), allora il rilevo sulla “perversità”, sarebbe stato pertinente; ma, in questi termini, vale solo a svelare la commistione di piani indebitamente intersecatisi -il giuridico e il morale- e la montante e insindacabile libertà con cui in Italia ad un giudice è dato di compiere simili commistioni.
Il talamo, com’è noto, è sempre stato oggetto privilegiato di ogni Tirannia. Il controllo del corpo è, anzi, la condizione preliminare per il controllo della persona nell’interezza delle sue molteplici qualità, spirituali e politiche. Oggi la magistratura italiana può fare questo e altro, come sappiamo.
E non solo da oggi. Una celebre vittima di imputazioni di “perversità”, curiosamente anche’esse di natura omoerotica, fra gli altri, fu, tutti lo ricordiamo, Pier Paolo Pasolini. Colse nitidamente la questione del Potere in veste giudiziaria. Non è tanto “…quei famosi mesi con la condizionale che rischiamo ogni giorno”; “Ciò che conta è la condanna. La condanna pubblica. Il venire additati alla pubblica opinione come ‘rei’ di idee contrarie alla comunità” (Caos, pag. 25). Fissava le matrici, oscure, profonde: “…è un paese di gendarmi che mi ha arrestato, processato, perseguitato, tormentato, linciato per quasi due decenni” (Caos, pag. 25); lo “sa”, conosce il Potere giudiziario che fruga fra le lenzuola, avendolo sperimentato. E, con precisa sensibilità, giustamente nobilita la passione dell’uomo-imputato, descrivendo “l’angoscia di chi per anni e anni si attendeva ogni giorno l’arrivo di una citazione del tribunale” (Caos, 25). E si noti il nesso: all’angoscia della citazione, si accostava il “… terrore di guardare nelle edicole per non leggere nei giornali atroci notizie scandalose sulla sua persona” (Caos, 25).
Si tratta di una pietas universale, che vale sempre, per tutti. Tanto più oggi, al tempo di Orwell e delle intercettazioni e dei video montati e rimontati e della violenza digitale e mediatica.
A rincalzo di Pasolini, che coglieva l’insidiosissima pericolosità di certe commistioni valutative, Franco Fortini, uno dei maggiori letterati italiani del XX secolo, aggiungeva: “Tutti i processi per motivi di costume implicano una dimensione politica, se rivolti ad una persona pubblica. Il processo al famoso regista o banchiere sorpreso con una minorenne sono politici sotto qualsiasi regime” (Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, Garzanti, 1977, 358).
Processo pubblico per additare le idee contrarie alla comunità, diceva Pasolini. E, lo abbiamo visto la settimana scorsa, è il tipo di processo annunciato da primari esponenti della magistratura, come quello più consono alle attuali necessità della società italiana. E’ appena il caso di rilevare, poi, nell’incalzare della cronaca politica e parlamentare di questi mesi, quanto l’espressione erotica, intima e pubblica, sia un’ “idea; e, anzi, da Socrate in poi, “L’idea” per eccellenza.
Se rivolti ad una persona pubblica, i processi penali per motivi di costume “sono politici sotto qualsiasi regime”, chiosava Fortini. E l’esempio del banchiere (profetico su Strauss-Khan?), a sua volta, è raro esempio di onestà intellettuale: a prevenire volgarità, viceversa molto diffuse e attive, di sapore paraclassistico o, più semplicemente, plebeo.
Il fatto è che i nostri peggiori incubi hanno il volto della norma giuridica.
Il pericolo si fa tanto più insidioso, quanto più norma giuridica e norma morale sembrano somigliarsi. Poiché la morale cristiano-medievale possiede un noto sostrato sessuofobico, e poiché le norme penali sulla prostituzione si prestano a letture improprie, che tendono a trasformare il peccato in reato e a riscuotere il demone di un’insondabile persecuzione dalla sua oscura caverna, bisogna tener sempre desta la vigilanza.
La distinzione, il muro di protezione dalla fregola espiativa, è quello che si è costruito in una lunghissima storia di sofferenze e di faticosissime conquiste. La morale fuori dal diritto, il peccato fuori dal reato, la tonaca lontana dalla toga. Peraltro, il più delle volte a favore dei più deboli: storicamente donne, liberi pensatori, e classi subalterne, tendenzialmente sottomessi all’interpretazione della morale, abusivamente resa “giuridica”, più confacente agli interessi di poteri o “potentati” egemoni.
Che le giovani donne passate al setaccio del Tribunale di Bari, con le loro vite “talvolta, a dir poco, modeste”, siano state protette e non esposte al dileggio di Boccadirosa, con quei riferimenti colmi di indignazione quasi schifata, uno lo può dire solo se è cretino o un pessimo ruffiano.
Bisogna dirlo. La manetta no. La gogna del peccatore carnale, del “piacere del Cavaliere” o di chicchessia, la lapidazione della complice fessura del diavolo, no. Bisogna ripeterlo: proprio ora. E, se non ora, quando?