Bernie Sanders è in giro per New York già da qualche giorno, ormai le primarie del 19 aprile si avvicinano e accelerando la frequenza dei suoi comizi il senatore del Vermont si gioca la possibilità di un miracoloso sorpasso su Hillary Clinton, proprio nel suo “home state”. Molti amici mi scrivono che andranno mercoledì al comizio che Bernie terrà a Washington Square Park, nel cuore del West Village, piazza della New York University. Sicuramente non mancherò.
Domenica però Bernie parla a Coney Island, la spiaggia storica di Brooklyn, cioè in quel lungomare dove da bambino chissà quante volte sarà andato con i suoi genitori, migranti ebrei venuti dall’est Europa, che nelle ristrettezze di una vita di duro lavoro, crebbero quel figlio che, a 75 anni anni, ora vive il sogno americano di diventare il Presidente eletto più anziano della storia degli Stati Uniti.
Ci andrò a Washington Square Park di Manhattan, ma ho deciso che vale la pena ascoltarlo qui Bernie, anche a Brooklyn, nei luoghi della sua infanzia.
Ad accompagnarmi c’è un mio caro amico, “Jason” (non è il suo vero nome, ma per far parte di questo articolo e lasciarmi scrivere quello che dirà, gli prometto che userò uno pseudonimo). Anche Jason è un ebreo americano “non believer” (non credente), nato e cresciuto a Brooklyn, nel quartiere di Gravesend, non lontano da quel Flatbush dove abitavano i Sanders. Ora Jason, con moglie e figlia, vive da anni nel quartiere “cool” di Park Slope. Dieci anni più giovane del senatore Sanders, pure Jason è cresciuto in una famiglia di figli di emigranti ebrei dell’Est Europa, con i quali andava spesso a Coney Island e Brighton Beach.
Mentre a Brooklyn aspettiamo la subway alla fermata di Union Street, il mio amico mette le mani avanti: “Guarda che io non voto per Bernie, io sono per Hillary Clinton. Ma ti accompagno volentieri a Coney Island, dove ho passato l’infanzia. Ho voglia di un hotdog”.

Un ebreo americano di Brooklyn, che potrebbe sembrare un cugino di Bernie Sanders, che ha certe movenze così simili, che parla come lui (accento brooklyniano un po’ meno marcato di Bernie) con nel viso quella stessa espressione da americano ottimista con negli occhi quel velo triste della tragica storia degli ebrei fuggiti dall’Europa, mi dice che non vota per Bernie ma per Hillary. Possibile?
Questo racconto sulla mia partecipazione da spettatore al comizio a Coney Island di Bernie Sanders, diventa la conversazione tra due amici, tra un italo-siciliano ora pure cittadino americano che pensa di votare per Sanders, e l’ebreo americano nato, cresciuto e rimasto sempre a Brooklyn, non believer (come Sanders) e che invece è convinto che la candidata da votare sia Hillary Clinton.

Nella linea N (che però questa domenica farà il percorso della D) che corre verso Coney Island, Jason mi fornisce le sue prime spiegazioni: “Hillary mi da più sicurezza, è competente, esperta. E poi ti devo dire: tra il primo americano di origine ebrea che diventa presidente e la prima donna, penso sia più importante la seconda novità'”. Cerco di provocarlo: beh, una prima donna presidente che però era stata prima la First Lady… Insomma l’oligarchia dei Clinton alla Casa Bianca? “Da Senatrice e da Segretario di Stato Hillary ha mostrato di avere grandi capacità, io mi sento sicuro con lei”. Uhm, Jason mi mostra subito che sarà un osso duro da scalfire nelle sue convinzioni.
Mentre si susseguono le fermate verso Coney Island, Jason mi racconta la sua infanzia: “Gravesend era un quartiere ebraico, come tanti a Brooklyn. Ma c’erano anche italiani e qualche irlandese. Giocavamo per strada. Non avevamo gran voglia di studiare, a scuola ogni tanto qualcuno chiamava per dire che c’era una bomba, in modo da poter andare a divertirci a Coney Island o Brighton Beach”.

Stiamo quasi per arrivare e torno alla carica: perché non voti Bernie, uno che ha vissuto praticamente la tua stessa infanzia? La risposta è secca: “Guarda, se penso ai miei amici di quei tempi, non riesco a pensare proprio a nessuno che vorrei vedere presidente…”.
Non mi arrendo. Sono convinto che Jason, quando ascolterà dal vivo Bernie Sanders, ci troverà quei contenuti che gli faranno cambiare idea. Arriviamo alla stazione, e Jason ha un sussulto: “Questa uscita, con mio padre e mia sorella, quante volte… Era lo svago che la mia famiglia poteva permettersi. Per me erano momenti bellissimi”.
Arriviamo proprio all’altezza del famoso Nathan’s, il delicatessen più famoso di Brooklyn e ci troviamo una fila lunghissima che gli gira attorno, ma non è lì per gli hotdogs: sono tutti in fila per Bernie! Ci incamminiamo per trovare la fine della fila, e ci accorgiamo che avremo almeno un chilometro. Notiamo subito che sono quasi tutti giovani, ventenni e trentenni. Al 95% bianchi. Ragazzi e ragazze che parlano con quell’inflessione newyorchese di chi magari non è nemmeno cresciuto a NYC, ma ci è venuto a studiare o ci è arrivato subito dopo il college, per uno di quei “cool jobs” nella pubblicità o simili. Qualcuno ha i jeans bucati alla moda, forse arriva da Tribeca o Soho, ma oggi sono qui tutti per ascoltare Bernie. Dietro di noi una coppia anziana, ma parla con un accento straniero, sembra tedesco!

“Non vedo nessun African American” mi dice Jason, e ha ragione. Scorgo una ragazza di colore, giovane e attraente, vestita anche lei come se uscisse da una boutique di Downtown Manhattan. Dove stanno i colletti blu? Gli operai? Le donne afroamericane single mother e disoccupate? Mah. “In questa zona ci vivono parecchi afro americani”, incalza Jason, “ma non stanno partecipando al comizio di Sanders. Eppure sono impressionato da quanta gente resti ad aspettare in questa fila lunghissima”.
In piedi per un’ora e mezza in fila prima di scorgere finalmente l’entrata della spiaggia di Coney Island, con le giostre dello storico Luna Park accanto. C’è il Secret Service schierato con i meta detector, controlla tutti. Bisogna tenere portafogli e cellulare in mano, mentre loro ti palpano e controllano se hai un’arma nascosta sotto la giacca. Troviamo dentro una folla, ma dalla fila che abbiamo fatto, dopotutto non è quella gigantesca che ci aspettavamo. Ci saranno forse sei, settemila persone, ma perché quella attesa interminabile? Probabilmente i controlli hanno resa la fila lentissima.
Prima di Sanders nel palchetto arriva Michael Stipe dei leggendari R.E.M, non canta, parla di politica…Jason finalmente sorride contento ed esclama: “Qui ci sono gli eroi musicali dei miei tempi ma ad ascoltare ci sono soprattutto giovani, incredibile!”.

Poi subito dopo arriva Bernie: “Thank you Brooklyn! Anche mia moglie Jane è originaria di Brooklyn!”. Il senatore Sanders fa qualche altro cenno ai ricordi di quella spiaggia e della sua infanzia, poi passa subito ai suoi temi preferiti. La percentuale dei ricchi che lascia le briciole alla stragrande maggioranza della popolazione. Ed ecco uno dei suoi cavalli di battaglia, i milioni di dollari che Hillary prende dai banchieri di Wall Street mentre lui sostiene la sua campagna elettorale accettando soltanto piccoli contributi dagli elettori: “I banchieri di Wall Street sono avidi ma non sono stupidi… Hillary Clinton ha ricevuto da loro 15 milioni di dollari… L’hanno pagata 250 mila dollari per un discorso. Ora per costare così tanto sarà stato il più bel discorso di tutti i tempi, dove avrà detto come risolvere i problemi del mondo, magari pronunciato in prosa shakespeariana. Hillary Clinton deve farci sapere cosa ha detto in quel discorso!”.
Bernie sostiene di voler rilanciare la democrazia americana: “Bisogna rivitalizzare la nostra democrazia, voglio che questo paese abbia la percentuale di votanti più alta nel mondo non la più bassa”. E ancora la guerra all’Iraq che lui non votò e che invece Hillary appoggiò, il salario minimo a 15 dollari. La sanità per tutti, “come in Canada”… e ancora l’università pubblica gratis: “Come accade in Germania. Al Congresso una volta ne parlavo ai miei colleghi davanti ad una delegazione europea, e un cittadino finlandese mi interruppe: ‘guardi senatore Sanders, lei si sta sbagliando, non è vero che noi non paghiamo l’università. Noi veniamo pagati per frequentare l’università”. Il pubblico applaude e grida Bernie, Bernie!.

I temi preferiti da Sanders “il socialista”, si ripetono per circa 45 minuti. A poca distanza, la polizia ha messo le transenne che delimitano lo spazio riservato a chi vuol protestare contro il comizio di Sanders. C’è un tipo con un cartello “Deport Socialists”. La temperatura resta freddina, ma il sole batte forte e alla fine la testa pelata di Sanders appare rossa, infuocata non solo di passione. Il senatore parla con foga, tossisce una sola volta, per la sua età mostra energia incredibile. La frase più ripetuta? “We must think and act out of the box”, bisogna pensare e agire “fuori dalla scatola”: non bisogna farsi spaventare delle idee anche se appaiono rivoluzionarie. Già, quella che Sanders chiama “a political revolution”. Applausi, e alla fine del suo lungo comizio anche Bernie andrà da Nathan’s per un hotdog.
Con Jason invece ci prendiamo una Brooklyn Lager in un bar sul lungomare, e poi facciamo una passeggiata sul famoso “board walk”, verso Brighton Beach. Il mio amico continua con i ricordi: “Vedi dove camminiamo adesso, il legno prima non era a livello della spiaggia, era molto più in alto, e noi ragazzini andavamo sotto, e ne combinavamo tante, quante feste, quante bevute, fumavamo… Poi alle undici di sera arrivavano i cops (poliziotti, ndr) e ci mandavano tutti a casa”.
Già, chissà anche Bernie ne avrà vissuta di quella trasgressiva gioventù tra Coney Island e Brighton Beach. Allora, Jason? Ti è piaciuto Sanders? Lo voterai? “Non ho sentito nulla che non avessi già ascoltato prima. Il suo messaggio resta efficace, forte, eccitante ma non spiega nulla di come farà quello che propone. Rompere le banche? E come?”. Ma Hillary, che farebbe? “Hillary secondo me ha un messaggio simile, ma in maniera più ‘incremental’. Lei propone molte delle stesse cose, ma ha più metodo e pazienza per arrivarci, sicuramente con lei ci vorrà più tempo, ma con Clinton ci sono anche più chance di riuscita”.
Non mollo: ma scusa Jason, la ‘political revolution’, come ha appena detto Sanders, si fa solo quando la spinta arriva dal basso verso l’alto, come è successo con il voto alle donne agli inizi del Novecento e poi con i diritti civili negli anni Sessanta… “Guarda Stefano”, mi dice Jason sfoderando un bel sorriso che sembra proprio quello di Bernie. “Se Sanders verrà nominato, ovviamente io a novembre lo voterò e spero che a quel punto diventi il nostro presidente. Ma per ora i suoi sono solo ‘punch line’ (slogan). Questi non bastano a riformare questo paese. Preferisco Hillary, con lei si va più piano, ma penso anche più lontano”. Già slogan. Come Barack Obama, con quel suo “Hope”, e “Yes, We Can!”. I ragazzi che applaudivano Sanders, avevano un cartello con la scritta: “A Future To Believe In”. Un futuro in cui credere. Per Jason resta solo uno slogan.
Passiamo una serie di ristoranti russi-ucraini che si chiamano con lo stesso nome, “Tatiana”, sul lungomare di Brighton Beach. Poi eccoci alla stazione della metro per prendere questa volta la Q. Si passa ancora per quartieri dormitorio di Brooklyn, dove tante generazioni di ragazzi ebrei, italiani, irlandesi, polacchi, sono cresciuti col sogno americano. Per molti di loro, quel dream si è arrestato a poche fermate dalla spiaggia di Coney Island. Invece, per un ragazzo settantenne di nome Bernie Sanders, che a 18 anni se ne andò in Vermont, il sogno continua.