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Aldo Cazzullo porta “The Neverending Empire” a New York

Un viaggio nell’eredità invisibile dell’Impero romano, presentato al Rizzoli Bookstore in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura

Monica StranierobyMonica Straniero
Aldo Cazzullo durante il suo intervento al Rizzoli Bookstore di New York, mentre riflette sul potere simbolico e culturale dell’Impero romano. Foto di Terry W. Sanders, 2025.

Aldo Cazzullo durante il suo intervento al Rizzoli Bookstore di New York, mentre riflette sul potere simbolico e culturale dell’Impero romano. Foto di Terry W. Sanders, 2025.

Time: 3 mins read

Che Roma sia caduta è una delle bugie più credute della storia. Per Aldo Cazzullo, invece, Roma non è mai davvero scomparsa. È ovunque. E lo ha raccontato con passione, ironia e una valanga di aneddoti storici durante la presentazione del suo libro The Neverending Empire, edizione internazionale di Quando eravamo i padroni del mondo. Roma: l’impero infinito, al Rizzoli Bookstore di New York, in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura.

Da Augusto a Zuckerberg, passando per Cesare, Napoleone, Roosevelt e Kennedy. Non si tratta di accostamenti forzati, ma di un lungo filo che collega modi di esercitare il potere, costruire consenso, governare territori lontani. “Roma ci ha lasciato più di rovine: ci ha lasciato idee”, ricorda. Cazzullo. E le idee, se sono buone, non muoiono”. La lista di eredità è lunga: libertà, giustizia, propaganda, trattati, suffragio, onore. E, naturalmente, la res publica. “L’idea che lo Stato appartenga a tutti, che la cosa pubblica sia di tutti i cittadini, nasce lì, a Roma. Anche la prima democrazia vera era romana, con i consoli eletti dal popolo, leggi votate, guerre dichiarate in assemblea”.

Cazzullo lo dice chiaramente: gli Stati Uniti hanno adottato quel modello, e lo hanno fatto fin dall’inizio. Il Campidoglio non è solo un nome suggestivo. È un programma politico. Madison e Hamilton firmarono testi fondamentali per la costituzione americana con lo pseudonimo “Publius”, uno dei primi consoli della Repubblica romana. Quando Kennedy si alzò in piedi a Berlino, nel 1963, dicendo “Ich bin ein Berliner”, stava richiamando l’antico orgoglio di cittadinanza: Civis Romanus sum.

Aldo Cazzullo durante il suo intervento al Rizzoli Bookstore di New York, mentre riflette sul potere simbolico e culturale dell’Impero romano. Foto di Terry W. Sanders, 2025.

L’Impero romano non si limitava a esercitare potere: lo organizzava, lo raccontava, lo faceva circolare sotto forma di parole e simboli. E non è un caso se ancora oggi l’inglese svolge lo stesso ruolo che aveva il latino: è la lingua della politica globale, della diplomazia, delle trattative economiche, della scienza, della rete. Ma dietro ogni costruzione imperiale, ci sono anche i suoi margini. I territori d’oltremare, le periferie, le province. Come nella Roma antica, l’America contemporanea ha ancora i suoi “avamposti”, e non sempre la loro condizione è quella di pari dignità. Guam, Puerto Rico, le Isole Vergini. Popolazioni che sono cittadine americane, ma non votano alle elezioni presidenziali. Vivono in quella che potremmo chiamare “zona grigia imperiale”: abbastanza dentro da essere controllate, non abbastanza da contare davvero.

Guam, ad esempio, è oggi un bastione strategico nella partita a scacchi tra Stati Uniti e Cina. Un terzo dell’isola è in mano ai militari americani. Intere porzioni di foresta vengono abbattute per costruire basi, poligoni, infrastrutture belliche. Gli ambientalisti denunciano la distruzione di ecosistemi unici, le comunità indigene accusano Washington di cancellare culture e terre ancestrali. Il tutto mentre il Pentagono decide dove piazzare i missili, senza troppe consultazioni.

Roma faceva lo stesso. Distribuiva cittadinanza con logiche strategiche, costruiva reti viarie per muovere legioni, integrava le élite locali mentre imponeva modelli culturali. L’impero era anche propaganda, retorica del potere, creazione di un racconto condiviso. Esattamente ciò che avviene oggi, solo con altri mezzi.

Cazzullo, nella sua narrazione, non indulge nel moralismo. Non dice che sia tutto sbagliato. Dice, però, che dobbiamo guardare in faccia la struttura del nostro mondo, riconoscerne le forme profonde. E soprattutto, riconoscere che Roma non è un simbolo neutro: è una griglia che ancora plasma le nostre istituzioni, i nostri desideri e i nostri conflitti. Quando Roosevelt liberò Roma nel 1944, disse che l’Italia non era il nemico. Il fascismo lo era. L’Italia, disse, è Dante, Galileo, Michelangelo. Ma a ben vedere, l’Italia era – e resta – anche Roma. E Roma, nel bene e nel male, è ancora uno specchio in cui l’Occidente si guarda.

Chi oggi controlla le immagini, le parole, i dati e le regole del gioco globale, sta occupando quello stesso spazio. Non serve più chiamarsi imperatore. Basta agire come tale. In fondo, il mondo di oggi è il mondo che Roma ha preparato. E forse, più che la caduta dell’Impero, è la sua metamorfosi che dovremmo imparare a raccontare.

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Monica Straniero

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