In un’epoca in cui uscire con qualcuno è spesso una corsa a ostacoli, dove ogni match può diventare fonte di frustrazione prima ancora del primo drink, trovare una comunità che accolga per ciò che si è diviene un atto di libertà radicale. Non una fuga, ma un ritorno: alla possibilità di vivere le relazioni con leggerezza, desiderio e autenticità.
Questo è ciò che accade a sempre più giovani donne queer e persone non binarie, che oggi trovano nei nuovi spazi saffici urbani non solo un luogo dove flirtare, ma anche e soprattutto, una casa emotiva e sociale.
Un tempo le donne lesbiche e appartenenti alla comunità LGBTQ+ potevano contare su pochissimi bar a loro dichiaratamente dedicati. Luoghi storici come il Cubbyhole o Henrietta Hudson, nel Greenwich Village, resistevano alla gentrificazione e al tempo, ma sembravano diventati più reliquie che rifugi. Dopo la pandemia, molti avevano temuto che quei luoghi si spegnessero del tutto, lasciando dietro di sé un vuoto difficile da colmare. E invece, qualcosa è cambiato. In silenzio, in modo fluido e quasi organico, è nata una nuova ondata di socialità queer.
Tale rinascita parte da una necessità semplice e potente: il bisogno di connessione. Ma si declina in forme completamente nuove, che vanno oltre la logica binaria dell’”uscita per rimorchiare”. Oggi, partecipare a una festa saffica significa immergersi in un ecosistema affettivo in cui si mescolano danza, comunità, estetica e politica. È un’esperienza variegata, pensata per accogliere e valorizzare ogni identità, spesso con un occhio di riguardo alle persone Black, Indigenous, and People of Color, BIPOC e non conformi al genere.
Le serate hanno molte forme, come un ventaglio si aprono a desideri diversi. C’è chi preferisce ballare fino all’alba in feste rumorose e caotiche come quelle al Woods, Brooklyn, dove la fila fuori inizia già alle 22, l’età media è molto giovane, ma l’energia altissima. Chi, invece, cerca spazi più rilassati come il PAT, sempre a Brooklyn, dove si può arrivare in t-shirt e senza trucco e parlare con persone simili senza ansia da prestazione. E poi c’è il desiderio di un’intimità curata, che prende vita in eventi come Chardonngay, nati da un semplice post e diventati in breve tempo una rete di connessioni profonde, tra calici di prosecco e primi incontri diventati relazioni durature.
C’è anche chi preferisce l’eleganza sommessa di una serata come Exes, a Brooklyn e a Manhattan che si distingue per un target più adulto e una curatissima estetica. Oppure chi si riconosce nella dimensione politica e cooperativa del Boyfriend Co-Op, Brooklyn, un bar autogestito dove si organizzano serate di giochi, incontri tematici e persino serate “zuppa”, pensate per socializzare senza pressioni.
Ciò che accomuna queste esperienze è la cura dell’ambiente: non solo inteso come spazio fisico, ma come atmosfera emotiva. Ogni evento è costruito per facilitare l’incontro autentico. Gli organizzatori, spesso parte attiva della stessa comunità, si impegnano a rendere ogni partecipante visibile, accolto e al sicuro. In certi casi, addirittura, inviano messaggi prima dell’evento per sapere chi arriverà da solo, in modo da facilitare l’inserimento in piccoli gruppi. Un gesto semplice che può fare la differenza tra sentirsi esclusi o sentirsi parte di qualcosa.
Il successo di questi luoghi non è frutto del caso, è una risposta creativa a un bisogno profondo: sottrarsi all’alienazione delle app, all’aggressività degli ambienti etero, alla solitudine delle grandi città. Il mondo queer femminile, troppo spesso marginalizzato anche all’interno della comunità LGBTQIA+, sta reclamando il proprio spazio non solo come luogo di espressione sessuale, ma come terreno fertile per la solidarietà, l’umorismo e l’amore in ogni sua forma.
Quello che emerge da questo nuovo panorama è un’idea di comunità che sa essere accogliente senza omologare, desiderabile senza essere predatoria. Ogni serata è un’occasione per sentirsi visti e vedere gli altri, per riscrivere le regole dello stare assieme, che sia amoroso o sociale.