C’è un momento, in cui Brooklyn sembra uscire da una scena del film il Padrino: la banda che suona, gli uomini in camicia bianca e catene d’oro, l’odore di salsiccia alla griglia e l’aria carica di una devozione antica. In uno dei suoi quartieri, Williamsburg, sotto il sole implacabile di una domenica di luglio, tra le strade della parrocchia di Nostra Signora del Monte Carmelo, la comunità si stringe attorno a una delle celebrazioni più spettacolari e sentite dell’anno: la Festa del Giglio. È qui che sacro e profano si intrecciano in un rito collettivo che profuma di fede, diaspora e appartenenza.

La cerimonia affonda le sue radici in Campania, più precisamente a Nola, in provincia di Napoli. È qui che nacque, secoli fa, la tradizione di portare in processione grandi obelischi in legno e cartapesta per onorare San Paolino, vescovo e patrono della città, osannato per aver salvato il suo popolo e per essere tornato in patria, accolto secondo la leggenda dai contadini con otto gigli bianchi, dopo un lungo esilio. Il gesto del “sollevare il giglio” divenne allora simbolo di profonda purezza, devozione e gratitudine.

Quando a fine Ottocento molti nolani emigrarono negli Stati Uniti, in cerca di lavoro e fortuna, portarono con sé anche questa solennità. E così, nel 1903, nella parrocchia fu organizzata per la prima volta una versione americana della festa, che da allora non si è più interrotta fino ad oggi, arrivata alla 138esima edizione.

Il distretto per alcuni giorni si trasforma: un grande spiegamento di forze dell’ordine presidia ogni angolo, ma senza appesantire l’atmosfera. È festa piena, gioiosa, e si vede nei volti delle famiglie con bambini, nei gruppi di amici seduti sui marciapiedi con granite in mano, nei palloncini e nelle bancarelle che traboccano di zeppole e panini ben farciti. La fiera gastronomica, che accompagna la festa, ha il sapore nostalgico di un luna park anni ’70: luci colorate, musica folk, e quell’aria sospesa tra passato e presente che solo le tradizioni vive riescono a mantenere.

Il cuore della celebrazione, però, resta l’“Alzata del Giglio”, un momento solenne e spettacolare insieme. Il grande obelisco alto oltre 25 metri, viene sollevato a spalla dai celebri Giglio Boys, uomini di ogni età che da settimane si preparano a questo gesto di devozione e forza collettiva. Accanto a loro, una nave di legno, il mezzo di trasporto che venne usato dal Santo, viene anch’essa portata a braccia, in una coreografia rituale che culmina nell’incontro tra le due strutture: una danza travolgente, ritmata dalla musica, sotto una pioggia di coriandoli che sembra benedire ogni gesto.

L’energia è intensa, quasi mistica. Il sudore dei portatori, la tensione nei muscoli, il coordinamento millimetrico dei movimenti: tutto racconta di uno sforzo che va oltre la fisicità. Ogni anno, tra i partecipanti e gli spettatori, spiccano monili d’oro a forma del simbolico fiore, reliquie religiose e santi protettori. Dettagli che rivelano un’appartenenza che si porta addosso, non solo nel giorno della festa, ma tutto l’anno.

Il momento dell’epilogo arriva quando gli “old timers”, i veterani, i testimoni di tante edizioni, compiono l’ultimo giro. Un gesto silenzioso e potente, un passaggio di testimone.

“Vengo ogni anno, perché in questa usanza ritrovo un pezzo delle mie radici, anche se, in verità, non sono napoletano, ma siciliano”. Salvatore sorride, con lo sguardo rivolto all’obelisco che svetta nel cielo. Mentre i portatori si preparano all’ultimo sollevamento, lui resta lì, immobile, a pensare forse all’Italia, che non ha mai visto davvero, ma che sente comunque essere ancora la sua terra.
