Giugno, a New York, è il mese in cui la comunità LGBTQ+ si prende lo spazio che le spetta. Lo fa con cortei, concerti, performance, mostre, incontri pubblici. Lo fa soprattutto con il Pride, evento centrale di un’intera stagione culturale. Da anni, accanto alle sigle storiche e alle associazioni militanti, compaiono anche i loghi delle grandi aziende: sponsor, partner, sostenitori. Ma quest’anno qualcosa è cambiato. Alcuni dei marchi che avevano legato il proprio nome al Pride, trasformandolo in una piattaforma di visibilità, hanno deciso di farsi da parte.
C’è chi ha ridotto i finanziamenti senza fornire motivazioni precise. Chi ha chiesto di non essere nominato. Chi resta, ma preferisce non apparire su manifesti e materiali ufficiali. L’incertezza economica viene spesso citata come causa, ma tra comunicati prudenti e note interne riservate si intuisce altro. Le politiche per la diversità, l’equità e l’inclusione – le famigerate D.E.I. – sono sotto attacco e molte imprese preferiscono scomparire piuttosto che rischiare di essere accusate di troppo zelo inclusivo.
Heritage of Pride, l’organizzazione che da decenni coordina gli eventi del Pride di New York, ha denunciato un ammanco di oltre 750.000 dollari. Una cifra che potrebbe tradursi in eventi cancellati, tagli ai programmi, sospensione di iniziative culturali e sociali. Eppure, la parata è confermata. Il 29 giugno, a Manhattan, si marcerà come ogni anno. Il tema scelto, Rise Up: Pride in Protest, richiama lo spirito originario del movimento: visibilità, ma anche resistenza.
La storia LGBTQ+ è fatta anche di questo: fughe e ritorni, silenzi imposti e parole riconquistate. Negli anni Venti, Riga – capitale della Lettonia – era uno dei pochi luoghi in Europa dove artisti queer, travestiti e intellettuali potevano esprimersi. Tra locali notturni e salotti appartati prendeva forma una cultura omosessuale vivace e sotterranea, capace di resistere alla sorveglianza, alla censura e a una legge che continuava a punire l’“amoralità” con la prigione.
Forse, proprio in questo arretramento delle multinazionali, si nasconde una possibilità. Quella di riappropriarsi del senso del Pride. Di tornare a raccontarsi senza mediazioni. Di sfilare, non per apparire, ma per essere ascoltati.