Nel cuore del Costume Institute, la mostra Superfine: Tailoring Black Style esplora il dandysmo nero. Camminando tra le sale, si rimane avvolti da un mondo di tessuti e dettagli sartoriali che ne raccontano la storia come espressione di identità, raffinatezza e resistenza culturale.
Il viaggio espositivo si apre con i concetti di ownership e presenza, evidenziando come la moda sia stata un mezzo di affermazione sociale nella diaspora nera. Nella società schiavista, l’abbigliamento imposto dai padroni aveva lo scopo di definire ruoli e gerarchie. Tuttavia, la qualità sartoriale e la cura nel confezionamento di questi capi contribuirono a trasformarli, nel tempo, in strumenti di resistenza e riappropriazione.

Tra i primi capi esposti, una divisa Brooks Brothers di fine Ottocento, destinata a un giovane inserviente nero, e un cappotto di velluto viola con gilet, appartenuto a un servitore di Charles Carroll, del Maryland. Questi abiti incarnano la contraddizione tra sottomissione e dignità sartoriale, un dualismo centrale nella storia della moda black.
Anche l’eleganza militare ha avuto un ruolo chiave nell’affermazione di figure storiche di colore. Tussaint Louverture, ad esempio, leader della Rivoluzione haitiana, usava la sartoria come simbolo di autorità politica, un’eredità ripresa da Thomas-Alexandre Dumas, primo generale nero dell’esercito francese e figlio di Marie-Cessette Dumas, una donna ridotta in schiavitù a Saint-Domingue. ad Haiti.
Frederick Douglass, primo schiavo alfabetizzato, in seguito scrittore, e anche il più fotografato del XIX secolo, comprese il valore della presentazione visiva come strumento politico. Nato schiavo nel Maryland, fuggì nel 1838 e divenne un pilastro del movimento abolizionista. La mostra espone una sua giacca impeccabilmente tagliata e una camicia con monogramma, simboli della sua consapevolezza dell’importanza dell’immagine.

La moda ha sempre colmato le lacune della storia della diaspora, mescolando tradizioni africane e sartoria occidentale. Dalla decolonizzazione al Black Power, l’uso di motivi africani è diventato un segno di orgoglio e appartenenza. Ecco, allora designer contemporanei come Virgil Abloh e Jacques Agbobly, capaci di reinterpretare queste radici con colori e forme tradizionali.
Un altro esempio significativo è l’ensemble di Maximilian Davis, ispirato al Carnevale di Trinidad e Tobago. La sua struttura evoca una cravatta sciolta, trasmettendo fluidità e disinvoltura, un rimando alla capacità di adattare la sartoria a nuove espressioni identitarie.
La mostra pone attenzione anche agli strumenti sartoriali come mezzo di affermazione del dandysmo. Le forbici, il righello e la rotella da ricalco appartenuti a Maurice Sedwell e tramandati a Andrew Ramroop rappresentano la maestria artigianale necessaria per creare capi che incarnano eleganza e identità.
A fianco, il dipinto Slick di Barkley L. Hendricks raffigura l’artista con un abito bianco doppiopetto e un kufi, un copricapo di origine africana, simbolo di appartenenza e stile.
Tra le figure che hanno rivoluzionato l’identità sartoriale nera, la rockstar Prince emerge come esempio di trasgressione dei codici di genere e stile. Durante l’era Purple Rain, il suo look, ispirato al dandysmo ottocentesco, sfidava le convenzioni con pizzi, colori audaci e dettagli gioiello, trasformando la moda in un linguaggio di espressione.

La mostra si chiude con un tributo ad André Leon Talley, critico di moda e sostenitore della rappresentazione nera nel settore. Passato dagli abiti sartoriali inglesi ai monumentali caftano, Talley ha fatto di questo capo un simbolo di regalità e autorità. Il capo esposto, realizzato da Patience Torlowei, testimonia la fusione tra tradizioni africane e europee e il ruolo della moda nell’arte dell’autodefinizione.

In conclusione, Superfine racconta una storia che va oltre l’estetica. La mostra è un manifesto visivo sulla moda come strumento superiore di trasformazione culturale.