Chiudersi in studio e disegnare una caffettiera. Ancora e ancora, giorno dopo giorno, finché quella caffettiera – oggetto qualsiasi, domestico, inoffensivo – non diventa un autoritratto, un avatar, una scusa perfetta per raccontarsi senza parlare di sé. Così nasce Self-Portrait as a Coffee-Pot, il progetto più recente (e probabilmente più libero) di William Kentridge, artista sudafricano classe 1955, che Hauser & Wirth porta a New York dal 1° maggio al 1° agosto 2025 con la mostra A Natural History of the Studio.
Più che una mostra, un’immersione. Nella sede di 22nd Street va in scena l’intera serie filmica – nove episodi girati tra il 2020 e il 2024 – insieme a tutti i disegni che l’hanno generata: oltre settanta fogli a carboncino che documentano il processo, ma sembrano vivere di vita propria. Le pareti diventano storyboard, lo studio dell’artista viene ricostruito (senza nostalgia) come un’officina mentale dove ogni superficie è in lavorazione. La caffettiera, nel frattempo, è ovunque: osservata, discussa, interpretata, fino a diventare metafora disinvolta del flusso creativo.
Al piano superiore, il disegno esce dalla carta. Le Paper Procession sono figure in carta ritagliate a partire da un registro contabile ottocentesco trovato in una chiesa palermitana, e che in mostra assumono la forma di sagome in alluminio dipinte a mano, leggere ma compatte, posate su strutture metalliche che le rendono quasi mobili, come se stessero per mettersi in cammino. A queste si affiancano i glyphs, piccole sculture bronzee nate da disegni e collage che, una volta tradotti in tre dimensioni, diventano parole visive, segni aperti a diverse combinazioni, parte di un lessico muto ma perfettamente leggibile per chi abbia familiarità con il linguaggio visivo di Kentridge. I glyphs tornano anche nel video Fugitive Words, presentato nella stessa sala, in cui le pagine di un taccuino si animano, le parole si scompongono, gli strumenti da disegno si muovono autonomamente, creando un flusso visivo non narrativo ma continuo, accompagnato dalle note del Trio dell’Arciduca di Beethoven.

Una selezione di trenta stampe realizzate nell’arco di due decenni completa il percorso nella sede di 18th Street. Kentridge, che ha iniziato a dedicarsi alla stampa fin dai tempi dell’università a Johannesburg, ha sperimentato tecniche diverse — dalla litografia alla xilografia, dalla fotoincisione al drypoint — trattandole non come supporti ma come dispositivi di pensiero. La macchina da scrivere del 2012, i ritratti frantumati di Lenin, Trotsky e Mayakovsky, quattro autoritratti recenti costruiti come puzzle di segni. Per raccontare un artista, a volte basta una caffettiera. Purché a disegnarla sia Kentridge.