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Jolanda Renga presenta il suo libro all’Istituto Italiano di Cultura a New York

“Sentivo il bisogno di mettere sulla carta quello che stavo provando per dargli un nome o un senso”

Federica FarinabyFederica Farina
Jolanda Renga presenta il suo libro all’Istituto Italiano di Cultura a New York

Jolanda Renga (sinistra) con Marino Bartoletti (destra) all'IIC-NY - VNY Media

Time: 4 mins read

“Sentivo il bisogno di mettere sulla carta quello che stavo provando per dargli un nome o un senso”. È questo l’effetto del libro autobiografico Qualcosa nel modo in cui sbadiglia (2023, Mondadori) di Jolanda Renga, presentato dal giornalista Marino Bartoletti all’Istituto Italiano di Cultura a New York.

“Sono riuscita a spiegarmi tante cose che mentre le vivevo non riuscivo a capire – ha dichiarato l’autrice – e, una volta concluso e costretta alla rilettura per correggerlo, mi ha aiutato a rivederle sotto un altro punto di vista o a risolvere certi aspetti che non avevo ancora affrontato”. Così è successo anche ai suoi lettori, giovani e adulti. “In realtà non mi sono immaginata un pubblico di destinazione né ho descritto in modo esplicito l’aspetto di Giaele – la protagonista – affinché tutti potessero immedesimarsi in lei o il suo personaggio rispondesse a quello che avevano il bisogno di sentirsi dire”.

Con delicatezza e passione feroce, tipiche di chi ha appena vent’anni e cerca il suo posto nel mondo, Renga ha spiegato che “non poteva vivere” senza scrivere il libro e finirlo, del tutto svincolata dall’esito finale. “Una sera, a 17 anni, ero da mia nonna e mi annoiavo, ma non avevo voglia di vedere un film o di leggere. Ho aperto il computer e ho cominciato a buttare giù delle idee”. Quella prima bozza è poi arrivata a Mondadori che ha proposto un contratto. “Da quel momento è diventato ufficiale e mi sono impegnata per concludere il manoscritto, nel giro di tre mesi. Era un sogno che avevo da tanto e quando mi si è presentata la possibilità ho sentito che dovevo riuscirci”.

Per l’occasione, Renga ha risposto anche alle domande de La Voce di New York.

Ricorda ancora quella prima bozza che ha scritto a 17 anni?

“Sì ed era tremenda. Non aveva neanche l’inizio. La storia cominciava subito. Ricordo che, in modo gentile, la mia editor aveva detto: Sembrano tante storie una dopo l’altra. Ero molto ero confusa sul da farsi, non avevo idea di quali fossero i passaggi successivi. L’ho finito nel giro di tre mesi ed è iniziata tutta la fase di revisione: mancava l’inizio, la conclusione, la suddivisione in capitoli. Insomma, era proprio una bozza grezza. C’erano tanti passaggi che andavano tolti, rivisti, spostati, accorciati. Mi è servito tanto per capire come funziona il dietro le quinte di un libro perché io non lo sapevo. È stato emozionante e mi ha aperto un mondo, quello dell’editoria. Riconosco di aver avuto questo privilegio che non è scontato e soprattutto non è scontato arrivarci a 19 anni”.

Ci sono delle parti, anche a libro pubblicato, che vorrebbe cambiare?

“Ti dico un segreto: dopo l’ultima volta che l’ho editato, non l’ho mai più riletto perché so già se lo facessi mi vergognerei di tutto quello che ho scritto e di come è scritto. Non ce la faccio. Magari lo sfoglio prima delle presentazioni perché voglio essere preparata, ma non ho il coraggio di farlo per intero. È un mio limite, cioè se devo tornare indietro non sono oggettiva. Probabilmente questo libro non è un capolavoro, ma per l’età che avevo è un buon lavoro – gli ha dato un 6. – Ma non riuscirei ad attribuirgli il valore che merita. So che ci sono tante cose che cambierei. In linea generale, sono molto soddisfatta perché è stato per me un traguardo personale tanto importante”.

Jolanda Renga (sinistra) con Marino Bartoletti (destra) all’IIC-NY – VNY Media

Quali sono le sue parti preferite sulle quali, secondo Lei, si regge tutta la storia?

“Una è il punto di svolta da cui è tratto anche il titolo, che è il primo per la protagonista. Se non ci fosse quella parte mancherebbe qualcosa. Poi il resto è dilatato e nelle ultime pagine, , che sono anche quelle che ho scritto quando ero un po’ più grande, si concentra tanto del senso che volevo dare a questa storia. Credo che sono le più riuscite”.

Che tipo di rapporto ha con la scrittura?

“Non l’ho mai visto come uno strumento di lavoro. Anche mentre scrivevo questa storia era più uno sfogo per me. Scrivere mi ha sempre aiutato a capire meglio quello che stavo provando e pensando in quel momento. E tuttora è così. Anche perché non mi considero una scrittrice. Spero di diventarlo un domani, ma per adesso mi reputo una studentessa universitaria. Certo, ho avuto la fortuna di scrivere un libro, ma è sempre un privilegio quando si riesce a mettere su carta quello che si vuole dire nella miglior forma possibile. È una grande soddisfazione. Quando riusciamo a trovare tutte le parole giuste per esprimere quello che volevamo dire, non è facile. È un impegno. Quando c’è la passione, però, ci pesa molto meno ed è quello che è successo a me. Nella vita di tutti i giorni io scrivo, pensieri, promemoria, gli appunti dell’università e cerco il modo migliore per impaginarli. Ma lo vedo sempre come un divertimento”.

Ha mai ricevuto delle critiche?

“Apprezzo tanto le critiche quando sono costruttive, non quando si tratta di insulti perché mi ci sono messa con tanta umiltà ed è la mia prima esperienza. Se si basa sulla forma, anche sul contenuto, ma è espressa in maniera educata, gentile, professionale, io abbasso la testa, ringrazio e segno per fare meglio in futuro. Quando ricevo degli insulti, non lo capisco perché piuttosto lascio perdere. C’è in ballo così tanto di una persona”.

Che effetto le fa sapere che, molto più di alcuni aspetti, certe emozioni intime siano state rese pubbliche?

“In realtà è una cosa a cui non pensavo quando scrivevo. Me l’hanno fatta notare gli altri, tra cui le due ragazze che mi hanno aiutato a correggere il libro. Mi hanno chiesto: Ma non sei preoccupata all’idea che le persone leggano queste cose di te? In realtà non lo ero perché, da lettrice, so che chi sceglie di leggere un libro sceglie di farlo con tanta umiltà e senza giudizio. Mi fido ciecamente dei lettori e so che sono persone disposte a capire e a empatizzare con lo scrittore, ma anche con i personaggi. Quando poi è uscito, forse essendo più esposta in ambito familiare, avevo timore che le cose venissero fraintese da tutto quel pubblico che non lo avrebbe letto, ma che avrebbe solo sentito qualcosa dall’esterno. Ma non è successo e ne sono veramente grata perché non volevo che questo libro venisse frainteso”.

Mostra l’interno della copertina: “È dedicato alle persone che, a volte, si sentono un po’ sbagliati”.

Si sta già occupando di qualcos’altro?

“La mia idea era di ricominciare appena finito il libro. La realizzazione, in realtà, è ancora lontana perché voglio dare il tempo che si merita a questo, ma anche a me di metabolizzare quello che sta succedendo. In futuro sicuramente mi piacerebbe perché ho già in mente il soggetto che vorrei per la prossima storia che è un’amica di Giaele e che vorrei approfondire di più perché non ha avuto abbastanza spazio per dire la sua. Non dico che non arriverà mai, ma ci vorrà del tempo. Intanto ho iniziato l’università e a lavorare e sto cercando di conciliare tutto, di capire se è necessario scrivere. Voglio farlo solo se è vero, sentito, se voglio dirlo e ci tengo a farlo nel modo migliore”.

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Federica Farina

Federica Farina

Laureata alla Scuola di Giornalismo dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, si occupa di attualità, arte e cronaca newyorkese Graduated from Journalism School at Catholic University in Milan, she writes about New York arts and social issues

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