Philip Guardione non si ferma mai. Dopo aver lavorato sul menù – “che è ancora in fase di perfezionamento” –, e sulla location – “per due anni abbiamo cercato, studiato l’area e rinnovato la struttura” –, lo chef di Piccola Cucina, originario di Francavilla di Sicilia e trapiantato a New York dal 2009, ha appena inaugurato il sesto ristorante: il quarto della Grande Mela e il primo nel distretto di Brooklyn, nel cuore di Boerum Hill, al 141 Nevins Street.
“La ristorazione a New York è una droga naturale – commenta Guardione. – Nel senso che questa città ti dà un’energia unica e ti sembra di non fare mai abbastanza, dal punto di vista delle opportunità imprenditoriali, della qualità, delle esperienze emotive. Mi sento come se ci fosse qualcuno che mi spinge a fare sempre qualcosa. Finché avrò questa adrenalina continuerò a guardare avanti”.
Arriva davanti al ristorante a bordo di un pick-up e comincia a scaricare delle casse con i rifornimenti. Ci apre le porte del suo nuovo ristorante, “Casa”. Guardione sostiene che “la gente si sta spostando sempre più fuori perché la città ha dei costi improponibili, le famiglie hanno bisogno di spazi e rientrando dopo una giornata fuori questo è un posto tranquillo, dove staccare. Anche noi lavoriamo meglio: ci fa essere meno impresa e più contatto con il cliente, più casa”.
Boerum Hill è quartiere alberato e residenziale. L’atmosfera che si respira è quella di un piccolo paese a sé, dal ritmo lento e familiare, completamente diversa da quella frenetica delle altre tre sedi di New York, due a Soho e una nell’Upper East Side. “Non c’è lo stress della città, dove la macchina deve girare continuamente, altrimenti rischi di andare in perdita”. Secondo Guardione, il cliente di Brooklyn ha anche un’altra aspettativa. “Se da una parte c’è almeno un cameriere per ogni tavolo, che versa l’acqua e sparecchia appena uno ha finito di mangiare, qui sembra quasi di dar fastidio”.

“Le persone del quartiere non sono abituate a questo tipo di realtà, un po’ sofisticata, che è propria di Manhattan – spiega lo chef. – L’arredamento è diverso da quello che puoi trovare a Brooklyn, che sono più o meno tutti simili e un po’ spartani, ed è diverso anche rispetto agli altri nostri ristoranti”. I giornali alle pareti, i tavoli tondi abbastanza separati, le tazzine a mo’ di lampadari che scendono dal soffitto, la cucina a vista e il ripiano dove fare la pasta a mano. Non ci sono altri posti così. “Ma è stata una scelta istintiva, di cuore. Ho visto un locale e già vedevo il potenziale che ha. Anche perché avevamo le idee chiare su cosa avremmo voluto realizzare”.
A New York, Piccola Cucina “Osteria” riproduce la tipica trattoria italiana siciliana, con un menù tradizionale dell’Isola dai gusti più forti: la sardina, il nero di seppia, i ricci di mare. “Estiatorio” riprende l’idea del mercato del pesce dell’Etna, servito fresco e a vista, da cui il cliente può scegliere. “Uptown” ha piatti molto più semplici, come le penne al pomodoro, le pappardelle ai funghi porcini, “che sono ricette che diamo quasi per scontate perché preferiamo qualcosa di più creativo”. “Il nome è diverso dal concetto, ma anche dall’offerta perché ogni zona ha la sua clientela – spiega Guardione. – Quando abbiamo aperto ad Uptown, per esempio, per diversi mesi ci tornava in cucina la pasta al pomodoro. Noi lo lasciamo riposare con olio e basilico e lo frulliamo perché è più facile anche da mantecare. La gente non era abituata. Bisogna con educazione farglielo capire oppure noi siamo pronti a cambiare anche giornalmente, fino ad azzeccare il menù perfetto. Facciamo l’abito su misura”.
Gli altri due ristoranti, quello in Montana e quello a Ibiza (l’unico europeo), sono diversi ancora. Il primo è un’estensione newyorkese, ma con il tempo è dilatato e gli spazi decisamente più larghi, per cui i clienti possono presentarsi davanti al locale con la macchina e parcheggiare. Il menù è più tendente ai gusti italoamericani, cioè gnocchi alla sorrentina, la carbonara, la cacio e pepe, a cui da poco sono stati aggiunti anche “i crudi” perché da dopo la pandemia molti ricchi americani hanno comprato là una seconda casa. Il secondo ha ritmi frenetici: gli orari sono diversi, la clientela è europea ed è molto più esigente di quella statunitense.
Oltre al posto, iI menù cambiano anche in base alla stagionalità, ma ci sono i piatti storici, quelli che rimangono intatti in ogni posto: l’arancino, la parmigiana di melanzane, la burrata con pomodorini e rucola, i maccheroni alla norma, la pasta al pistacchio o quella con la bottarga di tonno e mandorle. Tutti i prodotti arrivano dall’Italia: “Con dedizione andiamo alla ricerca dei prodotti di qualità, studiando, mangiando e confrontandoci con tutto il team”.

Prima di cominciare a intervistarlo sul serio, chef Guardione prepara un caffè e lo accompagna con un bicchiere di acqua naturale, un modo tutto italiano di prenderlo. E ancora si gira verso l’executive chef Karol Ukleja – “romano di origine, ma ormai ha la cittadinanza onoraria siciliana perché lavora con noi da 14 anni” –, gli dà qualche indicazione su dove posare questo e quello per organizzare il servizio della serata. Sono solo le 11 di mattina. Chef Guardione lavora ininterrottamente: “Io sono sempre presente: sono l’ultimo a uscire quando finiamo e il primo a rientrare la mattina dopo”.
Definisce la propria cucina “per tutti, mantenendo i gusti della nonna, ma con la tecnica Michelin”: “Rispettiamo tutti i passaggi, prepariamo ancora tutto, anche se non ci conviene in termini di tempo e di economia. Ogni singolo piatto è composto di molti elementi diversi e ci vogliono anche tante persone che se ne occupino. Ma abbiamo ancora questa mentalità e lo facciamo con passione”. Chef Guardione è estremamente curioso. Lo si percepisce dal suo modo di fare, di esprimersi – con la cadenza siciliana che non se n’è mai andata nonostante viva a New York da più di dodici anni e abbia vissuto prima in Francia e in Svizzera per diverso tempo.
Delle sue esperienze la più importante è quella del Four Seasons Hotel a Milano, dove chef Guardione ha vissuto sei anni nella cucina dello chef Sergio Mei – “il mio maestro”. “Mi ha cambiato a 360° gradi: la brigata conta almeno trenta persone, c’è una ricerca continua del prodotto che ti porta a conoscere tutto e a spaziare e si rispetta il cliente tanto che se si lamenta di qualcosa non lo paga, come succede oggi da Piccola Cucina”.
Veniamo interrotti da un passante che chiede se è già possibile riservare un tavolo. Una scena che si ripete da un anno a questa parte, da quando hanno cominciato a rinnovare lo stabile. I residenti incuriositi si fermavano e si affacciavano cercando di capire cosa stesse venendo fuori. Ed eccolo qui: Piccola Cucina Casa finalmente è aperta. “Se va tutto come ci siamo prefissati, sarà molto meglio qui che Manhattan.”