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Alla Columbia tra studenti “muti” e quello Speaker venuto per “proteggerli”

Reportage da un cupo e irriconoscibile campus dell'università newyorkese in cui la libertà d'espressione viene mortificata non solo da Mike Johnson

Stefano VaccarabyStefano Vaccara
Time: 5 mins read

Il Campus della Columbia University mercoledì appare blindato dai poliziotti della NYPD che lo circondano per tutto il perimetro, con i cancelli chiusi tranne quei pochi dove hanno posizionato anche metal detector. La più prestigiosa università di New York, ci appare ormai chiusa anche nel suo spirito. Quel suo bellissimo campus è avvolto da una tensione mai vista qui. Lo avremmo visitato in trent’anni almeno trenta volte, mai ci era apparso così cupo. Dove sono finiti gli studenti disponibili a rilasciare le loro opinioni sui fatti del mondo? Oggi il 90% di quelli che cerchiamo di fermare per porgli delle domande, ti sbarrano una mano avanti, non sorridono, balbettano “I’m sorry” e scappano via.

Quando ci avviciniamo agli studenti più “militanti” che si sono accampati da giorni per protestare contro “il genocidio” di palestinesi a Gaza e per spingere la Casa Bianca di Biden a imporre il cessate il fuoco a Israele, ti rispondono che loro non sono autorizzati a parlare, spetta ai loro “delegati”. Delegati? Indicano tre studenti, due hanno la keffiyeh a scacchi palestinese in testa, sono attorniati da decine di giornalisti, appena fuori dall’accampamento e rispondono alle domande, una per una. Quando cerchi di farne agli altri studenti, ti rimproverano, bisogna rivolgere agli altri tre. Ma visitare  l’accampamento? Non si può, ti fermano e ti dicono con modi decisi: i giornalisti devono andare dai nostri delegati, e ti indicano quei tre attorniati dalle telecamere. Non capiamo se è una regola provvisoria, soltanto oggi per la confusione che c’è, ma l’accampamento della protesta mercoledì pomeriggio è proprio “off limits” ai giornalisti.

Gli studenti “delegati” a rispondere alle domande dei giornalisti (Foto VNY)

Allora facciamole le domande ai “delegati”. Chiediamo se l’arrivo dello speaker Johnson li intimidisce: “No, semmai ci ha intimidito quando la polizia ha arrestato gli studenti o qualcuno ha minacciato di chiamare la Guardia Nazionale”. Gli chiediamo cosa pensano del consiglio che ha inviato loro dal Palazzo di Vetro Philippe Lazzarini, il capo dell’UNRWA (agenzia per i rifugiati palestinesi dell’ONU): cioè bisognerebbe non mostrare solo “empatia unilaterale”, solo per i palestinesi, ma anche per gli israeliani rapiti… Sentiamo qualcuno che da lontano urla “34 mila morti palestinesi rispetto a 140!”. Questa nostra domanda agli studenti “delegati” finisce ignorata.

Ci spostiamo e dopo vari tentativi andati a vuoto con studenti in fuga davanti al tesserino “press”, ecco che una studentessa si ferma e accetta di rispondere. Ci dice il suo nome, Beata, è australiana: “Non partecipo attivamente alla protesta, non resto a dormire nell’accampamento, ma appoggio quello che stanno facendo, ne sono orgogliosa”. Cosa pensa Beata dello Speaker del Congresso Mike Johnson che arriva tra mezz’ora e ha detto che è qui per mostrare la sua solidarietà agli studenti ebrei che si sentono in pericolo? “Non capisco il perché, qui dentro al campus non è mai successo nulla. Nessuno ha aggredito nessuno. Forse fuori? Ma non qui”.

Beata, studentessa australiana della Columbia University (Foto VNY)

Davanti alla scalinata della vecchia biblioteca centrale ci sono già posizionati i microfoni per quella che dovrebbe essere una conferenza stampa dello speaker del Congresso Michael Johnson e le telecamere e un fiume di giornalisti che si allunga ha preso posizione già da due ore. Quando ci avviciniamo, abbiamo accanto degli studenti che accettano di rispondere: che ne pensate della protesta? “Protestare va bene, ma non quando si sconvolge l’attività del campus e il lavoro degli altri studenti che sono impegnati con esami. Questo non ci sta bene” rispondono due studenti giovanissimi, sono al loro primo anno.

La studentessa Noah e il suo compagno rispondono alle nostre domande mentre attendono lo Speaker Mike Johnson (Foto VNY)

Cosa sapete degli studenti ebrei che si sentirebbero minacciati? E’ proprio così? “Certo, io posso testimoniarlo, sono ebrea” ci dice Noa. Come ti sei sentita a disagio? “Sono stata intimidita, dai messaggi on line nelle chat ma anche in giro”. Quindi cosa pensi della venuta dello speaker del Congresso? “Non sapevo che sarebbe venuto oggi, ma eccomi qui, voglio ascoltarlo e il mio giudizio dipende da quello che dirà”. Il suo compagno aggiunge: “Sicuramente fa bene sapere che qualcuno vuol dare solidarietà anche agli studenti che stanno subendo la protesta”. Ma gli studenti che protestano non stanno esercitando il loro diritto di libera espressione protetto dal Primo Emendamento? “Va bene la libertà d’espressione, ma non se minaccia la libertà degli altri” ci dicono i due studenti parlando insieme.

Giornalisti e studenti alla Columbia University in attesa dello Speaker del Congresso Mike Johnson (Foto VNY)

Ecco che arriva lo speaker Johnson con altri congressmen e congresswomen. Viene accolto dai “booh” degli studenti mischiati ai giornalisti. Parla pianissimo, la folla si lamenta: “Non ti sentiamo!”. 

Nel suo discorso dirà che la libertà d’espressione non autorizza a intimidire gli altri, che alla Columbia come in altre università la protesta ha oltrepassato i limiti del dibattito tra posizioni diverse. Alcuni studenti continuano con i “buu”, lui replica: “Ecco, proprio come sta accadendo qui”. Poi dice che la presidente della Columbia Nemat Minouche Shafik ha perso il controllo dell’università, che non riesce a proteggere gli studenti ebrei che hanno pagato per studiare alla Columbia e deve dimettersi.

“Non possiamo proprio permettere che questo tipo di odio e antisemitismo cresca nei nostri campus e dobbiamo fermarlo sul nascere. Sono qui oggi, unendomi ai miei colleghi e chiedendo alla rettrice Shafik di dimettersi se non riesce a mettere immediatamente ordine in questo caos”, ha detto Johnson.

Lo speaker Mike Johnson durante la conferenza stampa alla Columbia University (Foto VNY)

Passa la parola agli altri suoi colleghi venuti con lui da Washington e che rappresentano vari distretti a New York che a raffica ripetono le loro invettive contro gli studenti che “appoggiano Hamas” e che sono una “vergogna”. Alcuni studenti gli rispondono urlando “Palestina libera” e “fermate il genocidio”.

Poi Johnson risponde a delle domande che però nel pandemonio nessuno riesce a sentire, la situazione potrebbe anche degenerare, Johnson forse capisce che è arrivato il momento di andarsene e sparisce con i suoi colleghi.

Uno dei cartelli ai bordi dell’accampamento degli studenti che protestano per Gaza alla Columbia University (Foto VNY)

All’uscita proviamo ad avvicinare altri studenti, ma nessuno vuol parlare. Uno studente con i capelli rossi cammina abbracciato ad una collega di origini asiatiche, non ci respinge e anzi ci sorride, però ci avverte subito che non può parlare. Gli chiediamo perché sono tutti così titubanti ed evitano i giornalisti come la peste. Si accerta che non registro e poi dice: “Temiamo di essere fraintesi, qualunque cosa diciamo potrebbe essere interpretata male e far male”. Gli chiedo di fare un esempio, mi guarda con sospetto, si accerta che non prendo appunti, e poi dice: “Se diciamo che siamo a favore della protesta per i diritti umani dei palestinesi di Gaza, ci prendono per antisemiti. Se diciamo che siamo a favore della liberazione degli ostaggi e dell’esistenza dello stato d’ Israele in sicurezza, ci accusano di essere a favore del genocidio. Per questo preferiamo evitarvi”.

Usciamo dal campus con almeno questo lume di saggezza, alla fine di un pomeriggio oscurantista trascorso nel campus di una irriconoscibile Columbia University.

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Stefano Vaccara

Stefano Vaccara

Sono nato e cresciuto in Sicilia, la chiave di tutto secondo un romantico tedesco. Infanzia rincorrendo un pallone dai Salesiani e liceo a Palermo, laurea a Siena, master a Boston. L'incontro col giornalismo avviene in America, per Il Giornale di Montanelli, poi tanti anni ad America Oggi e il mio weekly USItalia. Vivo a New York con la mia famiglia americana e dal Palazzo di Vetro ho raccontato l’ONU per Radio Radicale. Amo insegnare: prima downtown, alla New School, ora nel Bronx, al Lehman College della CUNY. Alle verità comode non ci credo e così ho scritto Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination (Enigma Books 2013 e 2015). Ho fondato e diretto (2013-gennaio 2023) La VOCE di New York, convinto che la chiave di tutto sia l’incontro fra "liberty & beauty" e con cui ho vinto il Premio Amerigo 2018. I’m Sicilian, born in Mazara del Vallo and raised in Palermo. I studied history in Siena and went to graduate school at Boston University. While in school, I started to write for Il Giornale di Montanelli. I then got a full-time job for America Oggi and moved to New York City. My dream was to create a totally independent Italian paper in New York to be read all over the world: I finally founded La VOCE di New York. In 2018 I won the "Amerigo Award". I’m a journalist, but I’m also a teacher. I love both. I cover the United Nations, and I correspond from the UN for Radio Radicale in Rome. I teach Media Studies and also a course on the Mafia, not Hollywood style but the real one, at Lehman College, CUNY. I don't believe in "comfortable truth" and so I wrote the book "Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination" (Enigma Books 2013 e 2015). I love cooking for my family. My favorite dish: spaghetti con le vongole.

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