La cupola della Low Memorial Library fa da sfondo. Il giardino del campus sulla 116esima Strada è tappezzato di tende e teli. La protesta degli studenti della Columbia University continua per il quarto giorno consecutivo.

Tutta l’area è stata transennata. Centinaia di persone si sono radunate qua attorno gridando in coro “Palestine is genocide”, sostenendo la protesta portata avanti da chi riesce ad accamparsi dentro al campus. Raquel dice: “Rimarremo qui per sostenerli tutto il tempo necessario.
Sono stati molto coraggiosi a fermarsi nel campus”. Gli agenti del Dipartimento di Polizia di New York e la security dell’università non permettono a nessuno di entrare se non muniti del tesserino identificativo della Columbia University. Gli studenti che si avvicinano devono anche passare i controlli attraverso lo scanner.
In pochi hanno voglia di parlare e rilasciare commenti. Siamo in molti fra giornalisti e operatori che cerchiamo di raccogliere informazioni e soprattutto accedere. Per ore rimaniamo posizionati davanti ai cancelli in attesa di raccogliere qualche informazione o risposta dalle mail istituzionali. Finché un funzionario non riunisce un piccolo gruppo di reporter e ci permette l’ingresso.



Una volta dentro, il clima è decisamente diverso, più festoso. L’accampamento pro-Palestina sembra non lasciarsi scalfire dal brutto tempo che incombe sulla città né, soprattutto, dalle centinaia di arresti da parte della polizia newyorkese dei giorni scorsi. Sono arrivati a quota 108. Gli studenti della Columbia, rilasciati dopo l’identificazione, hanno ricevuto un mandato di comparizione. Dovranno presentarsi in tribunale nelle prossime settimane. Tutti sono già stati sospesi, alcuni dovranno lasciare gli alloggi e potrebbero essere radiati dall’università e perdere l’anno a pochi giorni dalla conclusione del semestre e dalla laurea. Ma molti di loro sono già tornati a protestare nel campus più forti di prima.
La presidente della Columbia Nemat “Minouche” Shafik ha annunciato che le lezioni riprenderanno online già da lunedì e che i dirigenti scolastici si riuniranno per discutere un modo per porre fine a “questa crisi”.
“Il decibel dei nostri disaccordi è aumentato solo negli ultimi giorni. Queste tensioni sono state sfruttate e amplificate da individui non affiliati alla Columbia che sono venuti al campus per perseguire i loro programmi”, ha dichiarato. “Abbiamo bisogno di un reset”.






Aiden, un ragazzo italoamericano, racconta: “Non vogliamo che i nostri soldi finanzino, attraverso questa istituzione, le casse di Israele. Siamo stanchi e questo è l’unico modo che avevamo per dimostrare il nostro disappunto”. Gli studenti si sono organizzati per rimanere a lungo: generi alimentari, coperte, piumini e vestiti. Gli edifici dell’università provvedono poi al resto. C’è anche chi ha improvvisato una cucina da campo e sta preparando riso e chapati. Molte le bandiere, gli striscioni, i cartelloni: ognuno contiene un messaggio. Tutti espongono con orgoglio la loro Kefia, simbolo dei palestinesi: chi se lo lega in vita, chi al collo o sulla testa. Un collettivo legge un manifesto al megafono e ripercorre la storia del popolo palestinese.
Molti chiedono di non essere fotografati, ripresi. Non vogliono che i loro volti vengano riconosciuti per paura di ritorsioni. “Siamo stanchi, ma resisteremo. Ci vogliono censurare, ci controllano, ma noi rimarremo fino a quando non ci saranno risposte precise”. Frederich, uno dei ragazzi del collettivo, cerca di fare ordine e organizzare una serie di attività. Mira, invece, confessa: “Io non sono palestinese, ma diverse mie amiche sì. Sono qui per sostenere la loro causa. Quello che sta succedendo è ingiusto e il mondo fa finta di niente”.

Questa mattina il rabbino Elie Buechler ha avvertito gli appartenenti alla society ebrea universitaria con un messaggio sul gruppo WhatsApp di andarsene e non avvicinarsi nemmeno alla scuola perché “gli agenti del Dipartimento di Polizia di New York non riescono a garantire la sicurezza dei ragazzi e ragazze ebrei dall’antisemitismo estremo e dall’anarchia”.

“Mi addolora profondamente dire che vi consiglio vivamente di tornare a casa il prima possibile e di rimanervi fino a quando la realtà all’interno e intorno al campus non sarà migliorata drasticamente. Nessuno dovrebbe sopportare questo livello di odio, tanto meno a scuola”, si legge nel messaggio che è stato mandato questa mattina dopo l’ennesima notte di proteste sfociate in violenza. Gli studenti ebrei che si sono presentati al campus ieri sera sono stati respinti prontamente dai coetanei con commenti antisemiti.
Nonostante l’avvertimento del rabbino Buechler, per la giornata di domenica 20 aprile, gli spazi della Columbia e della Barnard dell’organizzazione ebraica Hillel sono rimasti aperti e disponibili agli studenti che “hanno bisogno di un posto tranquillo per studiare o stare in compagnia”. Molti, infatti, hanno paura di girare da soli per il campus e di subire violenze o attacchi antisemiti.

Le prime tende, una sessantina, erano state piantate giovedì 18 aprile quando la presidente della Columbia University, Minouche Shafik, si trovava a testimoniare davanti alla House Education and Workforce Committee della Camera, con l’accusa di “grave negligenza” in merito agli attacchi antisemiti avvenuti nella scuola e all’indottrinamento considerato filo-palestinese. Durante l’udienza, Shafik ha aggirato le accuse che hanno contribuito alle dimissioni dei presidenti di Harvard e Penn University. Quando le è stato chiesto se l’appello al genocidio violasse il codice di condotta della scuola, non si è tirata indietro nella risposta: “Sì, è così”, ha detto. Ma c’è chi ha gridato alla vigliaccheria.