Il Rubin Museum of Art di New York City il 6 ottobre, dopo 20 anni di attività, chiuderà la sua storica sede di Manhattan per perseguire una nuova visione di “museo senza pareti”, ovvero itinerante.
L’istituzione dedicata all’arte e alla cultura himalayana, che nei giorni scorsi ha annunciato a sorpresa di voler diventare un museo globale, fu fondata dai collezionisti Donald e Shelley Rubin nel 2004, ospita mostre temporanee e permanenti fra cui un santuario buddista tibetano.
La scelta del museo ha l’obiettivo di promuovere un “programma innovativo di partnership, sovvenzioni, prestiti, mostre itineranti, borse di studio e offerte digitali”; comporterà però una drastica riduzione pari al 40% del suo staff, attualmente composto da 60 persone.
La decisione del Rubin giunge dopo l’analisi da parte del suo consiglio di amministrazione sulla gestione a lungo termine della collezione e delle risorse finanziarie del museo.
Con la nuova identità itinerante, il Rubin prevede di aumentare l’accessibilità alle proprie opere e di offrire maggiori opportunità di sostegno a studiosi e artisti per la ricerca e l’interpretazione dell’arte himalayana.
I piani per la programmazione futura sono già in atto attraverso mostre, installazioni e progetti “mobili” previsti fino al 2026, in collaborazione con altre istituzioni sia a livello nazionale che internazionale. Anche gli attuali programmi digitali continueranno ad essere prodotti, in relazione alle nuove esperienze pianificate per il futuro.

“Costruire e condividere questa collezione è stata una delle grandi gioie della mia famiglia e un privilegio come accogliere i visitatori”, ha scritto Shelly Rubin in una nota, “tuttavia il nostro anniversario ha ispirato una riflessione su come possiamo ottenere il massimo impatto possibile in futuro. Il risultato è la ferma convinzione che un modello più ampio ci permetterà di servire al meglio la nostra missione, non cambiamo il ‘perché’ condividiamo l’arte himalayana con il mondo, ma ‘come’ lo faremo”.
Negli ultimi cinque anni oltre al calo dei visitatori il Rubin ha dovuto affrontare, in più occasioni, anche accuse inerenti al possesso non etico degli oggetti esposti. I proventi realizzati dalla vendita del complesso saranno destinati a un fondo di sostegno che alla fine dello scorso anno era stimato in circa $150 milioni.
La sfida affrontata dal Rubin è analoga a quelle di altri musei che ogni giorno devono cercare di affermarsi in un panorama culturale in rapida evoluzione e segnato dalla recessione economica.
“Se non concentriamo la maggior parte delle nostre risorse su uno spazio particolare abbiamo la capacità di condividere ciò che rappresentiamo come organizzazione, creare consapevolezza e condividere l’apprezzamento per l’arte himalayana, con un pubblico molto più diversificato dal punto di vista geografico”, ha infine aggiunto il direttore del museo Jorrit Britschgi.
Fino al giorno della chiusura, i visitatori del museo potranno continuare comunque a ammirare la mostra prevista per l’anniversario, “Reimagine: Himalayan Art Now”, che presenta opere di 32 artisti contemporanei provenienti da Nepal, Tibet, Bhutan e internazionali ispirati all’arte himalayana, oltre alla Tibetan Buddhist Shrine Room e all’installazione newyorkese del Mandala Lab.