Nel novembre del 2019, pochi mesi prima della pandemia da covid-19, nelle sale italiane uscì lo sconvolgente documentario “Antropocene – L’epoca umana” di Edward Burtynsky, Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier.
“Antropocene” è un termine usato per indicare un’epoca geologica iniziata a causa del violento impatto delle attività umane sul nostro pianeta. Questo concetto, apparso per la prima volta negli anni Settanta e venuto alla ribalta nel 2000, grazie al libro “Benvenuti nell’Antropocene” del premio Nobel per la chimica Paul Crutzen, è oggetto di studio dal 2009 da parte del Gruppo di lavoro sull’Antropocene, un team di trentasette scienziati.
I registi, affascinati dal lavoro di questa commissione di scienziati muniti di droni e di strumenti di ripresa, si sono spinti in alcuni dei luoghi più inquietanti del pianeta. Fra questi l’immensa discarica di Dandora a Nairobi (Kenya), che conta 2 mila nuove tonnellate di rifiuti ogni giorno e la bidonville di Makoko a Lagos (Nigeria), costantemente soggetta a inondazioni.

Nel 2004 lo scrittore newyorkese Ted Botha pubblica “Mongo avventure nell’immondizia”, ISBN Edizioni. “Mongo”, avverte T. Botha, è una parola tipicamente newyorchese, un neologismo impiegato per definire “gli oggetti che dopo essere buttati via vengono raccolti, ritrovati, salvati”.
Nel dizionario dello slang che cita in apertura, per “mongo” si intende anche “chiunque rovisti tra i rottami” quindi i collezionisti di strada che spesso rivendono i loro oggetti, ma ancora più spesso li conservano.
“Col tempo inoltre ho scoperto che i collezionisti non cercano solo quello che si trova sul marciapiede, ma anche quello che sta sotto e dietro il marciapiede. A volte si portano via il marciapiede stesso. Io li chiamo collezionisti ma loro usano termini diversi per descriversi. Sono predoni e cercatori, osservatori e scavatori, truffatori nei cassonetti e nella melma, agricoltori di strada e dissidenti urbani (…) alcuni hanno iniziato a New York, se ne sono andati e poi sono tornati. Il loro modo di collezionare è vario quanto il mongo che raccolgono, ma tutti concordano su un punto: New York è imbattibile”.
Anni fa rimasi totalmente rapita dal mercatino Greenflea Market che si teneva nei week end nel cortile di una scuola nell’Upper West Side. Lì conobbi l’artista Scott Jordan, un newyorkese di Astoria che ha scavato nel suolo della città per quasi quattro decenni. Quello che iniziò come un hobby d’infanzia alla ricerca di tesori si è evoluto in uno stile di vita che lo ha portato a scandagliare i cantieri dei cinque distretti, tentando di recuperare la storia prima che sia lastricata per sempre dall’incedere della contemporaneità. Utilizzando pale, setacci a rete, zaini di tela, ingegno e un’incredibile quantità di determinazione, Jordan ha accumulato una enorme collezione di bottiglie antiche, porcellane, giocattoli, scarpe e altri oggetti, che insieme creano una narrazione storica letteralmente a patchwork di New York City e dei suoi primi coloni. Non resistetti alla tentazione di acquistare dei gioielli creati con ceramiche e porcellane provenienti dagli scavi della metropolitana. È autore anche del libro “Past Objects” che può interessare chiunque sia incuriosito dalla storia, dall’antiquariato e dalla cultura popolare.

Il rapporto poliedrico di New York con i rifiuti si trova anche nel mondo dell’arte. L’artista Joseph Cornell che nasce a Nyack nella Contea di Rockland nello Stato di New York dopo un impiego nelle vendita porta a porta che gli diede l’opportunità di girovagare per la città iniziò così a recuperare oggetti di qualsiasi tipo, da dischi a copie di vecchi film a lettere, riviste, lattine, biglietti usati della metropolitana. Tornato a casa la sera, componeva i rifiuti in piccole scatole magiche.
Scarti, assemblaggi eterogenei, unità ottenute tramite molteplicità irriducibili. Joseph Cornell raduna nelle sue scatole oggetti che raccoglie per le strade di New York. Incontriamo il mondo in una teca, l’universo in una cripta. E fu così che nel 1931 l’incontro con Julian Levy, proprietario di una galleria d’arte, lo convinse ad esporre alcuni suoi lavori alla prima mostra surrealista tenutasi a New York nel 1932.
La produzione che più spesso viene ricordata in merito a Cornell è quella relativa alle “shadow boxes”. Erano composte da una scatola di legno chiusa da un vetro all’interno della quale venivano assemblate le stesse “reliquie” facenti parte della sua enorme collezione personale. I criteri di assemblaggio erano casuali, infatti l’artista credeva che oggetti prelevati negli angoli più disparati della città e composti insieme potessero dar vita ad un’opera d’arte.
La città per lui aveva un numero infinito di oggetti interessanti in un numero infinito di luoghi, il suo compito era quello di creare dei legami; il suo lavoro, come lui stesso lo definisce, “è solo la conseguenza naturale del mio amore per la città” una sorta di vagabondaggio artistico per le vie newyorkesi.
A Roma fino a qualche anno fa oltre al noto storico mercato di “Porta Portese” che ha ormai mutato profondamente la sua identità e non può più essere considerato il “Mercatino delle Pulci” del film “Ladri di biciclette” di Vittorio De Sica (1948) c’erano mercatini di Mongo sparsi nelle periferie storiche. Uno molto grande era nella “terra di nessuno” che va da via del Porto Fluviale al Gazometro nel quartiere Ostiense, noto per essere stato il primo quartiere industriale di Roma Capitale nel 1871.

Ma anche alla cosiddetta “Porta Portese 2” tra la borgata storica del Quarticciolo e Tor Sapienza. Prevalentemente a vendere sono cittadini rom che rivendono cose rovistate nei cassonetti sparsi nella città e provvedono a tirar fuori con dei lunghissimi uncini.
Anche la città eterna a suo modo ha il suo “artista dei rifiuti” se così possiamo considerare Fausto Delle Chiaie (1944) autore di un Manifesto Infrazionista (1986), che spiega l'”infra-azione” come un’azione-collocazione-donazione di una o più opere, mostrate a terra da parte dell’artista, nei luoghi dell’arte, e il suo susseguente allontanamento dall’opera e dal luogo. Chiunque negli anni è passato da Piazza Augusto Imperatore, nel pieno centro storico di Roma, avrà visto le sue opere. Lenti spezzate di occhiali, viti e bulloni, lattine e pacchetti vuoti di sigarette lasciati in terra ed evidenziati con gessetto bianco.
Per mettere in luce il confine tra uso transitorio, antichità, oggetti da collezione, cianfrusaglie: ciò che conta è l’aura antifunzionale (perché i rifiuti sono tali perché hanno perso la loro funzione) e di antimerce che questi resti possiedono e che emergono dalla strada come da un mondo sommerso che segue altre leggi da quelle imposte dalla prassi dell’“usa e getta”.
Al ciclo di vita materiale di un oggetto si sostituisce il suo ciclo di vita simbolico, che è costituito dall’insieme dei significati in cui si è sedimentata la storia delle generazioni precedenti e la storia di tutte le culture che ci hanno preceduto.
In questa lettura quindi ogni oggetto, per quanto piccolo e insignificante, ha la sua storia irripetibile. La cultura di oggi è basata su una produzione e una spesa sempre più alte, perché prevale l’imperativo che solo così il mercato può crescere. Ma in questa maniera vediamo ogni giorno come sia l’ambiente a pagarne le conseguenze. La sfida è quella di imparare a consumare il meno possibile, dimostrando che – in piena economia dello spreco – non vi sarebbe bisogno di comprare più nulla.
Alcuni “raccoglitori visionari” di quelli intervistati Ted Botha teorizzano il reimpiego degli oggetti ritrovati in un modo creativo, come se i resti celassero in sé la potenzialità di un riassetto del mondo.
Credevamo che le risorse del nostro Pianeta fossero infinite. Oggi ci troviamo a doverci porre serie riflessioni sui nostri rifiuti.